recensione di Mauro Giori
Come sopravvivere a un'epidemia (e a due governi repubblicani)
Il documentario ricostruisce con quieta energia la storia di ACT UP e della successiva TAG, due notorie organizzazioni militanti che, a partire rispettivamente dal 1987 e dal 1992, molto hanno contribuito a sviluppare la lotta contro l’Aids sotto i governi ostili di Reagan prima e di Bush padre poi, come a tutti ben noto.
Più che sulle consuete interviste, usate con parsimonia, il film si affida a materiali di repertorio. Da un lato abbiamo home movies di momenti privati dei militanti dei due movimenti, dall’altro filmati di documentazione delle riunioni e delle imprese spesso clamorose messe a segno negli anni, ben note a qualsiasi gay di buona memoria ma che è sempre bello rivivere: si va dall’incursione nella St. Patrick’s Cathedral di New York durante la messa, nel 1989, per contestare le posizioni del cardinale O’Connor contro omosessuali e profilattici, alla copertura con un profilattico gigante della casa del senatore repubblicano Jesse Helms, autore di interventi omofobi di rara insipienza. E non mancano le manifestazioni più toccanti, come lo spargimento delle ceneri di alcune vittime sul prato presidenziale e l’esposizione, sempre a Washington, dell’Aids Memorial Quilt, un monumento ai nostri caduti cui è impossibile rimanere indifferenti.
E a una guerra la lotta contro l’Aids tra gli anni Ottanta e i Novanta viene spesso paragonata durante tutto il film, mentre sfilano volti noti e meno noti, o semplicemente anonimi, della militanza di quegli anni, sui quali spiccano Bob Rafsky, celebre soprattutto per aver affrontato Bill Clinton durante la campagna elettorale, e Peter Staley, cui il virus era stato diagnosticato nel 1985 ma che gode ancora di buona salute e che negli anni Ottanta, solo ventenne, di ACT UP era divenuto il volto pubblico. Non si può negare un viscerale compiacimento nel vederlo tacitare in televisione, nel 1988 e senza timidezza, il navigato Pat Buchanan, già consigliere di Nixon e Reagan, o tenere un trionfale discorso alla VI conferenza internazionale sull’Aids di San Francisco nel 1990.
L’unica perplessità mi è suscitata dal finale. Si comprende l’esigenza di evocare un’aura vagamente agiografica intorno a queste persone comuni che si sono trovate ad affrontare con enorme dignità e coraggio eventi infinitamente più grandi di loro, e cui si ascrive il merito di aver contribuito a salvare milioni di vite per la forza con cui hanno chiesto e ottenuto fondi per la ricerca e la prevenzione, semplificazioni nella circolazione dei farmaci e abbassamento dei loro prezzi, per tacere della lotta contro gli stereotipi infamanti allora rimessi in circolazione dalla cultura conservatrice con miopia e irresponsabilità. Tuttavia si finisce col restituire una versione troppo facile della parabola dell’Aids: alla fine del documentario si ricava l’impressione fuorviante che si tratti di un male del passato, pressoché tenuto sotto controllo dai farmaci retrovirali. Se si fosse rinunciato a un pezzo di mitografia in favore di un sano memento, in anni in cui la guardia si è pericolosamente abbassata, si sarebbe fatta cosa non solo buona e giusta, ma anche nello spirito di quella militanza che qui si vuole giustamente glorificare.