In questo libro, uno dei più piccoli fra quelli pubblicati da Busi, lo scrittore, sotto il nome di Monsignor Diabolus (si sa che la modestia non è il suo forte) compone un galateo moderno destinato al gentiluomo, figura ideale che non è anzitutto omosessuale ma anzitutto uomo, cui questo novello Della Casa rivolge i suoi consigli. E i temi abbondano: da quelli più seriosi e drammatici a quelli più frivoli; anzi, Busi deve aver fatta propria la regola dei conversatori britannici, secondo cui si dovrebbero trattare con serietà gli argomenti fatui e con levità quelli gravi. Purtroppo però il Nostro non ha nulla dell’inglese: invece ha molto dell’italiano, con le sue manie, i suoi luoghi comuni e i suoi chiodi fissi, soprattutto due: la politica e la Chiesa. Ora, sarà pur vero che la politica italiana è impresentabile e la Chiesa è impicciona. Ma occorre proprio che i Busi di turno ce lo ricordino sempre, ad ogni pagina, e per giunta con accento stentoreo, predicatorio e contumelioso? E magari un lettore può trovare anche il suo diletto dalle omelie d’un Passavanti o d’un Segneri, ma trovare fuori luogo e molesto che si predichi mentre si discetta su battuage e fellatio. Confesso che alla fine di questo libro sono giunto stremato dal fuoco d’artificio di proclami, vituperî e calembour pecorecci: e mi piange il cuore al pensiero di che operina deliziosa sarebbe uscita, sviluppando quest’idea, dalla penna d’uno scrittore capace di leggerezza anche se magari stilisticamente meno agguerrito di Busi, e di come, viceversa, un’ideuzza tanto felice sia qui diventata il mero pretesto per l’esibizionismo risentito, fragoroso e presuntuoso dell’egolatria busiana. Tenuto conto del mio scarsissimo apprezzamento, si vede che io sono un gay cattivo, di quelli clericali, reazionarî e fashion addicted che Busi combatte eroicamente nella sua quotidiana opera di rischiaramento delle menti ottenebrate; oppure, essendo da sempre e forse per sempre sordo al verbo busiano, si vede che sono semplicemente un cretino.