recensione diMauro Giori
L'amaro sapore del potere
Pochi si ricordano oggi di Adlai Stevenson, ma nessuno si è ancora dimenticato Nixon. Il fatto conferma più o meno la morale de L’amaro sapore del potere, sceneggiato da Gore Vidal a partire da una sua pièce teatrale del 1960. I due protagonisti, concorrenti alle primarie nella corsa alla Casa Bianca, erano appunto ispirati a Stevenson (che perse due volte contro Eisenhower) e a Nixon (con l’evidente aggiunta di un po’ di McCarthy). Con la faciloneria tipica di tanto cinema classico, William Russell e Joe Cantwell appaiono da subito in scena l’uno con l’aureola in testa, l’altro con le corna e la coda: non ci sono mezze misure, né le regole dello star system potevano lasciare adito a dubbi, dato che Russell è interpretato da Henry Fonda, i cui personaggi notoriamente non erano mai men che integri. Laddove Cantwell (un Cliff Robertson sempre sudaticcio e teso come la corda di un violino) è dunque un uomo senza scrupoli, conservatore nell’animo, pronto a gettar fango sul rivale dopo aver scoperto di un suo ricovero in una clinica psichiatrica, Russell rimane imperturbabilmente ligio alla propria etica e rifiuta di fare altrettanto quando un ex commilitone di Cantwell viene provvidenzialmente a rivelarne i trascorsi omosessuali nell’esercito. Il delatore è interpretato peraltro da un Shelley Berman untuoso e sgradevole all’inverosimile, perché sia chiaro che queste cose sono riprovevoli anche quando avvantaggiano l’eroe.
Vidal profonde battute decisamente in anticipo rispetto ai tempi, in cui il presidente uscente e malato terminale profetizza (ed è pure serio) successori ebrei, neri e donne, dopo quello cattolico (il riferimento è ovviamente a Kennedy, assassinato l’anno prima), mentre sia lui sia il prode Russell ritengono del tutto irrilevante l’eventuale omosessualità dell’avversario (per quanto infangante possa essere) nel valutarne l’adeguatezza a far da presidente.
Una favola sospesa tra l’uomo ideale alla Frank Capra, da un lato, e la politica reale, squallida e corrotta, dall’altro. Finale a sorpresa e suspense non mancano, nonostante la santità di Fonda non lasci spazio a grandi manovre di sceneggiatura.