recensione diAndrea Meroni
L'uomo della strada fa giustizia
Tra tutti i giustizieri improvvisati e invasati di cui pullula il poliziottesco, l'ingegner Davide Vannucchi de L'uomo della strada fa giustizia non è decisamente uno dei più simpatici o intelligenti. Non ha neanche la furia biblica del Luca Canali de La mala ordina o il masochismo di quella sottospecie di Giobbe genovese che è il Carlo Antonelli de Il cittadino si ribella.
Interpretato da un torvo Henry Silva, lo scorbutico Vannucchi si aggira per Milano bofonchiando contro l'inettitudine delle autorità tutte, irrimediabilmente minato nella psiche dall'uccisione della figlioletta, soppressa in quanto testimone scomoda dell'ennesima rapina a mano armata. Vannucchi bistratta tanto il commissario incaricato delle indagini (molto più paziente della media) quanto la ex-moglie (pure lei fin troppo comprensiva) a cui la tragedia bene o male l'ha ricongiunto. Oltre a inveire contro di lei perché il suo “sentimento cattolico” le impedisce di affrontare in modo sanguigno la perdita della figlia (e quindi di venire con lui a rivoltare Milano come un calzino, in barba ad ogni regola, per sterminare gli assassini), la incalza con ordini perentori a cui non si sente mai in dovere di dare una motivazione: «Non strillare», «Fai le valigie», «Non fare domande».
Quando – dopo aver rovinosamente inseguito in automobile dei giovinastri – un vigile urbano lo interpella, facendogli imperiosamente notare di non avere la patente in regola, lui sbotta: «E sa quanto me ne frega se manca il bollo!?». Eh, sì, perché lui ormai si considera «Vannucchi, Davide Vannucchi, licenza di uccidere», e per un attimo sembra che lo strato esterno del volto di Henry Silva – apparentemente costituito da una corazza che racchiude la sua vera faccia – stia per scollarsi per rivelare un muso di Gorgone.
Tutte queste circostanze fanno sì che il titolo L'uomo della strada fa giustizia – assieme a tutti gli appelli all'insurrezione dei cittadini perbene – possa essere riletto in una chiave quasi derisoria, tanto più che un finale inaspettatamente acuto rivelerà che il micidiale giustiziere ha preso una formidabile cantonata, lasciandosi dietro un'inutile pila di morti.
Tra le vittime di Vannucchi (anche se si suppone che sopravviva) figura pure Liala, un travestito interpretato da Alberto Tarallo, futuro produttore di fiction all'epoca specializzato nel ruolo; lo interpreta per esempio anche ne La banda del Gobbo, sempre diretto da Umberto Lenzi, e anche lì indossa un completo da vamp/battona firmato dal costumista di fiducia di Lenzi, Silvio Laurenzi.
Liala fa – come da tradizione del poliziottesco – la coquette in un locale frequentato da truci malavitosi e viene usata da Vannucchi per ottenere informazioni sull'uomo che ritiene l'assassino di sua figlia. L'approccio dell'Ingegnere è tutto fuorché educato: risponde ai cortesi apprezzamenti di Liala con una scarica di ceffoni, seguiti da un rudimentale waterboarding. Ciononostante la povera Liala – attratta, tanto per cambiare, dall'eterosessuale manesco – aiuta Vannucchi più di quanto questo non meriti, strappandolo per il rotto della cuffia alle grinfie dei malviventi che è andato a stuzzicare. Per quanto nell'economia della trama Liala sia utile, è difficile considerarla (con la sensibilità odierna) un personaggio positivo, tanto più che non fa altro che ripetere che la situazione la fa «pisciare nelle mutandine». In effetti ne ha ben donde: verrà punita dai malviventi di cui sopra, i quali – dopo averla trasformata in una sorta di “donna gallina”, memore di Freaks – la sodomizzano con un cero di spessore non indifferente. A maneggiare il cero è l'onnipresente stuntman Bruno Di Luia, il quale aveva (ed ha tuttora) una carriera parallela come militante neo-fascista, il che contribuisce a dare una sfumatura ulteriormente sinistra alla situazione.
Il merito principale di Vannucchi alla fin fine è quello di non lasciarsi irretire (pur avendone la tentazione) da un'organizzazione destrorsa nota come Movimento di Autodifesa Civile, presieduta dall'Avvocato Ludovico Mieli, interpretato dal sempre respingente Claudio Gora. L'Avvocato Mieli – che si propone come portavoce dei cittadini di specchiata virtù – risulta essere stato condannato in passato per “atti di libidine nei confronti di minore” (non si sa se maschio o femmina ma, a giudicare da come lo guarda il suo fido gregario, si suppone sia maschio); questa informazione lo rende comprensibilmente ricattabile presso la sua squadraccia di picchiatori incappucciati che praticano la legge del taglione (pensa se sapessero che è pure ebreo, come il suo cognome suggerisce...!).
Per quanto offra rozzamente vari spunti di riflessione, L'uomo della strada fa giustizia non è la settima meraviglia, neanche nel genere del poliziottesco. Perlomeno può elargire delle cospicue dosi di brutalità pura e ritmato sadismo: in questo senso le regie di Umberto Lenzi sono sempre una garanzia.