recensione diAndrea Meroni
Greta
Avete presente quando, davanti a un film, cominciate a domandarvi – con astio o amarezza in proporzioni variabili – per che tipo di pubblico sia stato concepito? Ebbene, se conoscete questa sensazione, saprete anche che l'astio e l'amarezza aumentano fieramente nel momento in cui arrivate alla conclusione che il film è stato fatto per un pubblico “da festival”, come se lo spettatore di una qualsiasi kermesse – per motivi soprannaturali, dovuti semplicemente all'aura della kermesse stessa – dovesse essere più propenso ad appassionarsi a trame esili e a messinscene bamboleggianti.
Greta, opera prima del brasiliano Armando Praça, ha il difetto imperdonabile di essere pensato per un pubblico "da festival”, ragion per cui il regista si concede il lusso di ingrassare una storia magrissima – con un presupposto anche suggestivo – farcendola con una sequela infinita di primi piani muti (ben fotografati, per carità) e di silenzi gratuiti che neanche in un polar francese.
In breve: Pedro, un infermiere settantenne obeso, ama farsi sodomizzare mentre il partner gli sibila nell'orecchio il nome “Greta Garbo” (non sono certo che la diva svedese, dall'alto dei cieli, apprezzi questo omaggio feti-cinefilo). La vita di Pedro è scossa dalla notizia che l'amica Daniela (una transessuale matura, che fa da affittacamere a prostituti di bassa lega, ma che si fa altresì apprezzare come sciantosa di stampo molto tradizionale) è minata da una malattia terminale ai reni. Pur di liberarle un letto nell'ospedale in cui lavora, Pedro porta a casa propria tale Jean, un ferito che si scopre essere un assassino, tra l'altro per difesa non completamente legittima... tra Jean e Pedro comincia una storia d'amore, su cui gravano, ovviamente, numerosi punti interrogativi.
Il tentativo di scansare gli stereotipi a cui una vicenda del genere rischia di dare il “la” fallisce in maniera desolante, perché, invece di intervenire a livello contenutistico (l'infatuazione del protagonista per le dive è solo la punta dell'iceberg dei cliché), gli artefici del film si accaniscono furiosamente sull'aspetto formale, evitando qualsiasi compromissione con un immaginario gradevole e/o estetizzante. Lodevole iniziativa, ma forse Praça sopravvaluta il grado di motivazione dell'ipotetico spettatore “da festival” se pensa che quest'ultimo si senta arricchito emotivamente nel vedere eterni totali centrati sul ventre sussultante (sospinto dal coito sodomitico) del protagonista Marco Nanini, intenso e credibile quanto si vuole ma mal impiegato in un'operazione che reclama a tutti i costi l'identificazione del pubblico, ma che non fornisce alcun appiglio per guadagnarla.