Longtemps je suis couché à bonne heure

20 aprile 2013

Benché si ripeta spesso che nessuno è un eroe per il suo cameriere, almeno un'eccezione a questa massima esiste, e si tratta d'un'eccezione di tutto rispetto, essendo rappresentata da questi ricordi di Céleste Albaret, la quale fu al servizio di Marcel Proust negli ultimi anni di vita del grande scrittore. La donna, poco più che ventenne, divenne governante del romanziere francese in modo quasi casuale: era moglie di Odilon Albaret, il quale, come in precedenza il più famoso Alfred Agostinelli, faceva da autista a Proust, pur non essendo alle sue esclusive dipendenze, trattandosi in realtà d'un tassista; quando il cameriere di Proust, al pari di Albaret, dovette partire per il fronte nel 1914, la donna, che in precedenza aveva sbrigato soltanto incarichi occasionali, si trovò unica dipendente, e dovette pertanto adattarsi ai ritmi di vita, alle abitudini e ai capricci d'un padrone dai modi soavi, ma dal carattere tutt'altro che dolce.
Dopo essersi rifiutata per anni di assecondare le curiosità di biografi, studiosi e ficcanaso d'ogni specie, circa mezzo secolo dopo la morte di Proust alfine Céleste si decise a raccontare ciò che ricordava; e, raccolte e sistemate da Georges Belmont, ne nacquero queste vaste e gustose memorie. Sono, come ben si nota subito, le memorie di una persona innamorata: Céleste Albaret subì il fascino della personalità di Proust al punto d'esserne del tutto soggiogata; invano ci si attenderebbero da lei un giudizio amaro, una malignità, una critica. Per questa ragione, secondo me, costituisce un falso problema decidere se siano rimembranze artefatte o agghindate: penso invece che la loro sostanziale sincerità e il loro candore di fondo emergano puntualmente proprio nella costante volontà che dimostrano di proteggere l'immagine del grande autore da qualunque ombra rischi d'offuscarla, consentendo però al contempo che i difetti e le debolezze di Proust, cacciati dalla porta, entrino di soppiatto dalla finestra. Céleste Albaret è un'innamorata, non una falsaria. Ella vede il suo padrone continuamente chino sulla sua opera, cui sacrifica tutto, dall'alimentazione a una vita regolare alla stessa sua salute; Proust non mangia quasi nulla, vive, in sostanza, di caffellatte zuccherato (che vuole preparato con maniacale perfezione): se mangiasse qualcosa quando usciva in società, ovviamente, la donna non poteva saperlo. Altrettanto, tutte le amicizie equivoche del romanziere, o semplicemente la frequentazione di personaggi che a Céleste andavano poco a genio, le vede come puri espedienti per procurarsi modelli ed esperienze utili alla composizione della Recherche: con esercizio affettuoso e commovente di arrampicata sugli specchi, la Albaret nega decisamente perfino l'omosessualità dello scrittore; se si recò ad esempio in un bordello omosessuale, il quale funse da modello a quello di Jupien nel Temps retrouvé, fu solo per documentarsi: ma intanto dalle parole della governate traluce intatta la manierata malizia con cui il padrone gliene seppe fornire ragguaglio.
Di fatto, non è nemmeno escluso che l'occhio della governante vedesse meglio di quello degli ammiratori: è del tutto verosimile che almeno in parte, come accade a volte agli spiriti creativi, Proust nutrisse sovente più interesse artistico e mondano (in lui i due aspetti erano intrecciati in modo inestricabile) che amicizia sincera per molte persone che frequentava; oppure che tra la curiosità mondana e artistica e l'affetto fosse lui per primo incapace di distinguere. Certo è che da questi ricordi esce un ritratto pieno di chiaroscuri: il grande scrittore era un uomo ricco di delicatezza, capace di gesti di estrema bontà e cortesia, ma era anche, come spesso le persone valetudinarie e ipersensibili, chiuso, diffidente, tirannico e volubile. Non solo era impossibile ingannarlo, ma quando si vedeva contraddetto o, peggio, capiva che qualcuno lo voleva far passare per fesso, era capace di collere fredde e sfoghi verbali algidi e taglienti da togliere la pelle di dosso. Nei rapporti coi suoi pari alternava dedizione e snobismo, affetto e alterigia. Pure, con la narratrice visse un rapporto sostanzialmente sereno e positivo: le chiedeva un servizio di maniacale perfezione, ma Céleste gli era cara e, nei limiti in cui le circostanze lo resero ammissibile, in questi ultimi anni di vita gli fece pure, in sostanza, da confidente. La cosa più bella del libro è però come la figura di Proust si costruisce pian piano sotto gli occhi del lettore, in tutta la sua complessità di personalità sfaccettata: la Albaret, come già ho detto, non mente, trasfigura; ma il ricordo trasfigurato non trasforma mai l'immagine di Proust in un santino. Solo che, immersi in tanta luce, anche le debolezze, i capricci e i difetti sembrano belli. Céleste Albaret, in piccolo, fece qui del suo eroe ciò che questi nel suo capolavoro compì con le sue duchesse, i suoi salotti, la sua Parigi, il suo mondo di cui aveva vissuto la bellezza e intravisto il tramonto.
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