Omosessuali e diritti

Il Pacs in Francia e il confronto con la situazione italiana

30 gennaio 2005, Franco Grillini, Maria Rosaria Marella (a cura di), Stare insieme. I regimi giuridici della convivenza tra status e contratto, Jovene Editore, Napoli 2001, pp. 123-132

In tutti i paesi democratici, da ormai parecchi anni, l'agenda poli­tica dei partiti alla sinistra del centro, e spesso non solo di questi, comprende un vasto capitolo dedicato al riconoscimento dei diritti civili dei cittadini omosessuali.

Non si tratta più, per questi paesi, soltan­to di depenalizzare l'omosessualità: si tratta di estendere al caso dell'orientamento sessuale i divieti di discriminazione già ovunque vigenti, che proibiscono di discriminare sulla base della razza, della reli­gione, dell'etnia, della lingua o del sesso; si tratta di reprimere i delitti motivati dall'odio contro gli omosessuali; si tratta di fornire qualche forma di riconoscimento giuridico alle famiglie omosessuali, dal livello minimo costituito da una protezione minimale comune a tutte le cop-pie di fatto, fino a quello massimo di consentire agli omosessuali di contrarre matrimonio; si tratta di affrontare la questione, in alcuni paesi così numericamente rilevante da risultare ineludibile, dei figli degli omosessuali.

Se in Italia norme specifiche che reprimevano penalmente l'omo­sessualità furono abrogate già in epoca postrisorgimentale, escluden­dole, come già in Francia, dalla prima codificazione penale unitaria, a trent’anni dalla nascita del movimento gay è profondamente cambiato in meglio l’atteggiamento dell'opinione pubblica nei confronti degli omosessuali, ma nessuna riforma legislativa è ancora stata introdotta. Perfino un progetto di legge che si limitava nella sostanza a estendere al caso degli omosessuali le norme antidiscriminatorie già vigenti è stato insabbiato sotto la minaccia di ostruzionismo da parte dei gruppi più clericali della destra e del mondo politico cattolico.

Né la sinistra sembra, nella sua maggioranza, minimamente propensa ad affrontare una questione ritenuta (a torto, secondo i più recenti sondaggi d'opi­nione) impopolare presso l'opinione pubblica. È la vecchia storia già sperimentata al tempo delle lotte per il divorzio e per la libertà di scel­ta delle donne in materia di aborto: una classe politica arretrata è convinta di interpretare gli umori e i pregiudizi di un elettorato che, almeno sui temi dei nuovi diritti che emergono dal processo di secolarizza­zione, si sta invece velocemente sbarazzando dei preconcetti ereditati da una cultura olistica, arcaica, violenta e intollerante.

Anche in questo campo, le maggiori speranze per l'Italia sembrano venire non dalla sua classe politica, ma dai processi di integrazione europea: l'art. 13 del Trattato di Amsterdam, che detta la procedura per l'adozione di una normativa antidiscriminatoria comunitaria, pone sullo stesso piano la discriminazione fondata sull’orientamento ses­suale e i casi di discriminazione tradizionalmente considerati intollera­bili dalla coscienza democratica europea; fin dal ’94 il Parlamento eu­ropeo ha invitato con una sua risoluzione gli Stati membri ad adottare provvedimenti legislativi miranti a rimuovere ogni causa di discrimina­zione, anche per quel che concerne «gli ostacoli frapposti al matrimo­nio di coppie omosessuali», e perfino «qualsiasi limitazione del diritto degli omosessuali di essere genitori ovvero di adottare o avere in affi­damento dei bambini»; nel '98 lo stesso Parlamento ha ammonito gli Stati candidati all'ingresso nell'Unione europea ad abrogare ogni forma di discriminazione nei confronti degli omosessuali, specie per quel che riguarda l'età del consenso, pena il rigetto della loro adesione da parte del Parlamento; nello scorso gennaio l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha approvato una raccomandazione mirante a estendere al caso dell'orientamento sessuale la normativa antidiscrimi­natoria contenuta nella Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (una misura questa, che, se adottata, avrebbe conseguenze normative di enorme portata negli or­dinamenti interni di tutti gli Stati aderenti e che consentirebbe un'effi­cace e penetrante intervento della Corte Europea dei Diritti Umani).

In Italia ogni minimo passo verso la parità dei diritti degli omo­sessuali e perfino verso la repressione degli atti apertamente discrimi­natori cioè verso l'affermazione della «pari dignità sociale» dei citta­dini, perché di questo, in sostanza, si tratta — comporta sforzi enormi e inauditi: perfino la modesta e simbolica istituzione di registri comunali introdotto nei propri ordinamenti normative antidiscriminatorie iden­tiche a quelle che proteggono altri gruppi sociali oggetto di analoghi pregiudizi e intolleranza, ma hanno anche affrontato il problema del riconoscimento giuridico delle famiglie omosessuali.

In Danimarca è vigente dal 1989 una legge sulla «partnership registrata» che estende alle coppie omosessuali che lo desiderino l'intera normativa matrimo­niale, con la sola esclusione (peraltro erosa da una riforma introdotta lo scorso anno) delle norme riguardanti la filiazione: è da ormai più di un decennio che i cittadini omosessuali danesi possono «sposarsi» nei municipi del loro paese, nel corso di cerimonie sostanzialmente identi­che a quelle in uso per i matrimoni civili. Analoghe leggi sono state successivamente adottate anche negli altri paesi scandinavi. In Olanda dal l° aprile 2001 è entrata in vigore la legge (v. in appendice) che con-sente agli omosessuali il ricorso al matrimonio vero e proprio. Una normativa federale dei genere è all'esame del Parlamento canadese, so­stenuta da un'ampia maggioranza.

Ovunque in Europa i governi di centrosinistra lavorano all'attua­zione di riforme miranti all'introduzione della parità di diritti: in Gran Bretagna il governo Blair si adopera per l'abrogazione della «clause 28», la norma con cui i governi thatcheriani avevano introdotto il divieto di «promuovere l’omosessualità» (operazione che, quand'anche venisse da qualcuno tentata, si scontrerebbe con la natura dell'orien­tamento sessuale delle persone, che non si presta ad essere «promosso» in alcuna direzione); in Francia è entrata appena in vigore, non senza feroci resistenze da parte della destra e degli integralisti di ogni confessione, la legge sul «Pacs»; in Germania una legge sul riconosci-mento delle famiglie gay è al centro di un braccio di ferro fra verdi e Spd che veste soltanto sulla portata dell'equiparazione al matrimonio eterosessuale.

Solo in Italia il potere di interdizione dei partitini successori della vecchia Dc, la cupidigia di servilismo nei confronti del clericalismo cattolico da parte delle forze politiche, dei media e di gran parte della cultura laica, l'abdicazione o il disinteresse dei vecchi protagonisti delle battaglie laiche e per i diritti civili sembrano vanificare ogni speran­za di incivilimento. In conseguenza, il clima non è neppure favorevole a una giurisprudenza, che pure sarebbe possibile, che volesse finalmente «prendere sul serio» quella parte dell'art. 3 della Costituzione che vieta, fra l'altro, discriminazioni fondate su «condizioni personali».

Il punto che sfugge a una cultura politica e giuridica e a un mon­do accademico che, a differenza di quanto è accaduto nel mondo anglosassone, hanno per lo più evitato di confrontarsi con i problemi po­sti dalla presenza, per la prima volta, da qualche decennio non più sot­tomessa e silenziosa, di una popolazione omosessuale decisa invece a far valere i propri diritti di cittadinanza è proprio il carattere di «condizione personale», di caratteristica intrinseca dell'identità individuale, proprio della condizione omosessuale.

I problemi posti nelle democra­zie liberali dalla presenza dei cittadini omosessuali sono problemi analoghi a quelli posti non già da altre minoranze portatrici di «stili di vita alternativi» volontariamente preferiti a quelli della maggioranza, ma, piuttosto, a quelli posti dalla presenza di minoranze portatrici di un'identità «ascritta», non oggetto di scelta, come lo sono le minoran­ze razziali, etniche, linguistiche.

Più precisamente, dato che la nostra identità ascritta si presta ad essere nascosta e occultata agli occhi della maggioranza (come fino a qualche decennio or sono lo era quasi sem­pre, per paura e per vergogna), i problemi posti dalla nostra presenza sono per più di un aspetto paragonabili a quelli di una minoranza co-me quella ebraica, gli appartenenti alla quale potevano anch'essi cerca-re di occultare la propria identità, attraverso la scelta dell'assimila­zione. Nel nostro caso, però, neppure la scelta dell'assimilazione può cancellare la nostra identità ascritta, ma può solo nasconderla, così come operazioni di chirurgia plastica possono nascondere caratteristi-che fisiche razziali diverse da quelle della maggioranza. Agli ebrei e a molte minoranze razziali, del resto, ci accomunano secoli di persecu­zioni, culminate durante il periodo nazista nella deportazione in massa verso i campi di sterminio, una tragedia che non ha mai ottenuto l'attenzione, il rilievo e la riflessione che avrebbe meritato.

Da quando la liberalizzazione avvenuta nelle società occidentali negli ultimi tre decenni ha consentito anche agli omosessuali di servirsi della libertà di espressione senza il timore di essere vittime del più completo ostracismo sociale, non dovrebbe più essere lecito ignorare che l'esperienza pressoché unanime degli omosessuali rispetto al pro­prio orientamento sessuale non è l'esperienza di una scelta, bensì di una constatazione. La constatazione, cioè, del fatto che i propri desi­deri erotici e/o affettivi si indirizzavano in modo del tutto naturale, spontaneo e tendenzialmente esclusivo verso individui del proprio ses­so anziché del sesso opposto (esattamente come, per la maggioranza costituita dagli eterosessuali, l'attrazione erotica e affettiva si rivolge invece. altrettanto naturalmente e spontaneamente, verso individui del spingesse a conformarsi all'orientamento maggioritario. Sicché la sola alternativa alla ricerca di relazioni erotiche e/o affettive con individui del proprio sesso sarebbe costituita da una forzata condanna a una ca­stità e solitudine affettiva perenni, senza che l'individuo interessato nu-tra alcuna vocazione in tal senso. Che questa «condizione personale», in cui consiste qualunque orientamento sessuale, omosessuale o etero­sessuale che sia, abbia radici organiche, genetiche, o da ricercare in esperienze psichiche risalenti alla più remota infanzia è del tutto irrile­vante rispetto alla sua natura di condizione ascritta, non scelta e non modificabile, e ai problemi etici e giuridici che ne conseguono. E del resto, da ormai un quarto di secolo, le scienze psicologiche e compor­tamentali hanno escluso la condizione omosessuale dal novero delle condizioni patologiche o delle turbe della personalità.

Eppure, gli omosessuali non sono ancor oggi tutelati dalla legge italiana contro le ingiuste discriminazioni che possono colpirli sul la­voro, nella scuola, nei rapporti sociali, o renderli vittime di delitti cau­sati dall'odio nei loro confronti, come lo sono invece tutte le altre mi­noranze che sono anch'esse vittime di pregiudizi sociali ancora larga-mente diffusi. E tale larga e persistente diffusione del pregiudizio nei nostri confronti è tragicamente testimoniata dai numerosi casi di suici­di di adolescenti omosessuali, quasi sempre presentati e archiviati co-me «inspiegabili».

1. Le "famiglie omosessuali"


In secondo luogo vi è il problema delle unioni stabili fra cittadini dello stesso sesso: cioè il problema di quelle che non vediamo come possano essere considerate altro che «famiglie omosessuali».

Vi è innanzitutto una serie di problemi molto pratici e spesso tra­gici di fronte a cui questi cittadini possono venirsi a trovare:

– a chi ha convissuto con una persona, magari per trentanni, è spesso negato perfino il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale, perché questo diritto non è garantito dalla legge, e spesso le famiglie di origine addirittura impediscono al partner l'accesso al luogo di cura e lo escludono da ogni decisione riguardante il partner malato e incapace di agire;

– al convivente omosessuale non è garantito dalla legge il diritto di subentrare nell'affitto della casa comune in caso di morte o soprav­venuta incapacità del partner;

– la legge esclude la reversibilità della pensione del partner omo­sessuale defunto, e, attraverso l'istituto della riserva a favore dei legit­timari, è vietato al testatore di lasciare in eredità il proprio patrimonio alla persona cara con cui ha condiviso l'esistenza; e, anche in assenza di eredi legittimari, tale eredità viene falcidiata dalla stessa tassazione prevista per i lasciti a persone del tutto estranee al defunto;

- solo in poche regioni è previsto che gli omosessuali possano aver diritto alla casa popolare, se in possesso dei requisiti di legge, in modo da evitare tra l'altro la necessità della separazione forzata di partner anziani, conviventi da decenni, e del loro ricovero più o meno coatto in «case di riposo».

Si tratta, fin qui, di situazioni evidentemente drammatiche e spesso tragiche determinate dal mancato riconoscimento giuridico delle famiglie omosessuali. Ma le proposte di riforma avanzate dal movi­mento gay in Italia come in ogni altro paese occidentale muovono anche da una più profonda questione di libertà, di uguaglianza formale, di equità e di giustizia, di pari dignità sociale.

Non si tratta, come spesso si equivoca, di «imporre» una regolamentazione giuridica autoritativa a quelle coppie di fatto eterosessuali che, potendo scegliere di contrarre matrimonio, hanno liberamente e consapevolmente scelto di optare per un diverso tipo di convivenza.

Lo stesso, doveroso, riconoscimento giuridico di tutte le «famiglie di fatto», se varrebbe a risolvere almeno parte delle situazioni drammatiche appena descritte, non sarebbe sufficiente a rimuovere le ingiu­ste discriminazioni e a realizzare la «pari dignità sociale» fra i cittadini indipendentemente dall'orientamento sessuale.

Una tale normativa, infatti, non potrebbe far discendere imperativamente, dal mero fatto della convivenza, una regolamentazione dei rapporti giuridici e patri­moniali così esaustiva e penetrante da equivalere in tutto e per tutto a quella costituita dalla volontaria assunzione di un vincolo matrimo­niale: qualora fosse auspicabilmente accolta dal Parlamento, è verosi­mile che lo sarebbe solo nei limiti della previsione di una protezione giuridica per il convivente economicamente più debole o sopravvissu­to, tale soprattutto da evitare che questi possa essere travolto da eventi imprevisti e catastrofici. Una legge sul riconoscimento delle famiglie di fatto, qualora fosse introdotta con l’intento di risolvere (anche) i problemi posti dalle convivenze omosessuali, non potrebbe che risultare altrimenti o troppo invasiva ed esigente, imponendo alle coppie coni venti eterosessuali, che hanno pur scelto volontariamente di non sposarsi, il peso di vincoli non voluti, o insufficiente ad assicurare alle coppie omosessuali, che non hanno potuto scegliere di attribuire propri rapporti giuridici un assetto diverso, una tutela che vada al di là dello stretto indispensabile (o forse anche di qualcosa di meno dello stretto indispensabile). Solo se la possibilità di optare per la regolamentazione prevista per i rapporti fra i coniugi nel matrimonio fosse disposizione anche delle coppie omosessuali, la normativa sulle unioni di fatto svolgerebbe la medesima funzione in entrambi i casi.

2. Il PACS


Obiezioni in parte analoghe potrebbero anche essere rivolte a un, normativa come quella sul Pacs, da poco entrata in vigore in Francia, alle analoghe proposte sulle «unioni civili» da anni pendenti davanti alle Camere in Italia e mai passate nemmeno al vaglio delle commis sioni competenti.

Da un lato l'iter del progetto sul Pacs in Francia stata reso particolarmente difficoltoso proprio dalla sua natura di «matrimonio di serie B», utilizzabile sia dalle coppie eterosessuali che d quelle omosessuali. Si sono infatti sommate nella lotta contro la su approvazione due posizioni fra loro diverse. A coloro che si oppone vano al Pacs perché contrari comunque e per principio a qualunque riconoscimento della parità dei diritti degli omosessuali, si sono aggiunti coloro, apparsi molto più numerosi, che si opponevano al Pacs perché vi vedevano una minaccia alla stabilità sociale della famiglia eterosessuale francese: una volta introdotta, argomentavano costoro, possibilità di optare per un «matrimonio leggero» sostanzialmente revocabile ad nutum, buona parte delle giovani coppie potrebbe esse portata a farvi ricorso non come alternativa alla semplice convivenza ma come alternativa al matrimonio.

D'altra parte non sembra emergere nella società italiana una diffusa domanda sociale per l'introduzione di un matrimonio eterosessuale più «leggero»: sicché l'introduzione del nuovo istituto verrebbe in sostanza vista, non del tutto a torto, come un modo per introdurre un istituto utilizzabile dalle famiglie omsessuali (ma senza giungere ad attribuire loro pari libertà di scelta pari dignità sociale) e senza che i parlamentari e i partiti proponenti venissero posti nella condizione di doversi assumere la responsbalità di una scelta “a favore” degli omosessuali.

E’ stato probabilmente questo il ragionamento della classe politica francese, che però si è dovuta scontrare, come appena detto, con un surplus di ostilità, probabilmen­te non previsto, determinato dalle preoccupazione dei tradizionalisti per la sorte delle famiglie eterosessuali più ancora che per i progressi e le vittorie del movimento gay.

Due omosessuali che condividono la propria esistenza non solo non hanno scelto il proprio orientamento sessuale, che come detto co­stituisce materia di constatazione e non di scelta, ma non è stata nem­meno data loro la possibilità di scegliere quale assetto giuridico attri­buire ai propri reciproci rapporti giuridici e patrimoniali.

Ci chiedia­mo in che cosa la condizione di due partner omosessuali differisca a questo proposito dalla condizione di due coniugi eterosessuali che, per un motivo o per un altro, non possano avere figli. Due ultrasettantenni che si sposino o si risposino, possono, ad esempio, scegliere di attri­buire un regolamento piuttosto che un altro ai propri reciproci rapporti; eppure neanche loro possono avere figli né per via naturale, né attraverso la fecondazione in vitro (impossibile a tale età e del resto vietata), né attraverso l'adozione, ad essi preclusa. Non è quindi fonda­ta in alcun modo l'affermazione secondo la quale il particolare regola-mento giuridico e patrimoniale previsto dalla legge per i rapporti fra i coniugi sarebbe giustificato dal fatto che esito «normale» del matri­monio è la nascita di figli. Tra l'altro, la legge italiana (come le leggi matrimoniali di pressoché tutti i paesi occidentali) prevede che l'impo­tenza o l'incapacità di generare di uno degli sposi, se conosciuta al momento della celebrazione del matrimonio, non ne causi l'invalidità.

Con i progetti di legge in materia presentati da tempo anche al Parlamento italiano non ci si propone comunque di modificare né la concezione positiva del matrimonio nel diritto italiano, né quella so­ciologica della famiglia, che nessuna legge potrà mai di per sé modifi­care, ma solo di regolare il caso delle coppie omosessuali stabilmente conviventi che lo desiderino sulla base della piena parità di trattamen­to con quanto disposto, limitatamente ai rapporti fra i coniugi, nel ma­trimonio, e consentendo agli interessati la medesima libertà di scelta.

In particolare, il progetto di legge Soda e altri, presentato alla Camera la scorsa primavera, prevede l'introduzione di un nuovo istituto giuridico, denominato «unione affettiva», simile a quello della «partnership registrata», introdotto nello scorso decennio in tutti i paesi scandinavi.

Quanto alla questione dell’adozione, o dell’inseminazione artificiale, si tratta di un capitolo totalmente estraneo a tutte le proposte di legge pendenti davanti al Parlamento italiano, e che non è al momento oggetto di specifiche rivendicazioni da parte nostra. L'argomento dei figli è solo ed esclusivamente un argomento strumentalmente ed emo­tivamente sollevato dagli avversari della parità di diritti che, non po­tendo ragionevolmente opporre argomenti di carattere razionale alla richiesta che due omosessuali possano scegliere di regolare i propri re­ciproci rapporti nello stesso modo consentito dalla legge a coniugi ete­rosessuali che siano parimenti impossibilitati a procreare o ad adotta-re, agitano lo spettro dell'adozione dei figli da parte degli omosessuali come la conseguenza necessaria cui porterebbe il riconoscimento dei nostri diritti individuali. Purtroppo questa strategia sembra essere sta­ta efficace, se spesso capita che anche chi non abbiamo motivo di rite-nere a noi pregiudizialmente ostile vede proprio nella questione della filiazione il nucleo centrale delle nostre rivendicazioni, anziché, come è nei fatti, un elemento ad esse al momento addirittura estraneo. Sba­gliamo se ci sembra di vedere riemergere nel successo di questa strate­gia un vecchio pregiudizio razzista che ricollega in qualche modo in-conscio e inconsapevole l'omosessualità niente meno che alla pedofi­lia? Se così fosse, le disonorevoli polemiche sollevate dal presidente di Alleanza nazionale sui «maestri gay» troverebbero qui la loro altrimen­ti incomprensibile spiegazione.

A noi sembra un caso evidente di irragionevole e immotivata di­scriminazione il negare alle coppie omosessuali la possibilità di presce­gliere un regolamento dei propri reciproci rapporti giuridici e patri­moniali uguale a quello che regola nel matrimonio i rapporti fra i co­niugi: tanto più se da tale regolamento sia esclusa (come lo è nel progetto Soda e altri, e come lo è del resto nelle analoghe leggi vigenti nei paesi scandinavi) l'estensione al nuovo istituto delle norme sulla filia­zione, e se il nuovo istituto non pretenda neppure di essere qualificate con il nomen juris di matrimonio. Infatti, l'introduzione di un nuove istituto basato su un tale regolamento, proprio perché riservato alle sole coppie dello stesso sesso, non influirebbe comunque sulla nature del matrimonio, il quale continuerebbe ad essere regolato per intere dall'attuale normativa, che non si propone venga modificata in nessu na sua parte. Proprio per tali motivi, l'introduzione dell'«unione affet tiva» non interferirebbe in alcun modo con il disposto dell'art. 29, co I, della Costituzione, quale che sia l'interpretazione che si intendo darne: i «diritti della famiglia» fondata sul matrimonio non verrebbero infatti compromessi né modificati né limitati né intaccati in misura alcuna dall’esistenza delle “unioni affettive”.

Ma, a questo punto, non si vede neppure quale altro interesse pubblico potrebbe essere addotto per giustificare il persistere della di­sparità di trattamento, se non quello consistente nell'adesione a prati-che discriminatorie tramandate da una tradizione violenta, intollerante e preliberale. Una tradizione che, per quanto vi si sia poco riflettuto, almeno in Italia, a noi che ne siamo le vittime appare strutturalmente identica a quel razzismo duro, propriamente biologico, che oggi perfi­no l'estrema destra neonazista europea esita a rivendicare apertamen­te: proprio perché tale tradizione si propone di colpire e discriminare una categoria di cittadini solo sulla base di una caratteristica dell'iden­tità personale che non è oggetto di scelta.

[Un ristretto di questo saggio è pubblicato in Comitato per le pari opportunità Commissione famiglia e minori aiga – Sezione di Bari, I diritti nella famiglie di fatto: attualità e futuro. Atti del convegno tenutosi a Bari il 9 giugno 2003, Uniongrafica Corcelli, Bari 2004, pp. 89-95]

Leggi, discriminazioni e persone omosessuali

Di Franco Grillini, in “Opportunità e discriminazioni – Mappe. Appunti sul futuro sostenibile”, supplemento a “Il sole che ride”, n. 21, settembre 2000, pp. 40-51.

Dato che in Italia l'argomento è stato finora scarsamente dibattuto e studiato, capita ancora di sentire persone (non sem­pre del tutto ignoranti) chiedersi con stupore se davvero gli omoses­suali in Italia siano discriminati dalle leggi.

Le discriminazioni vigenti in Italia sono di due tipi: quelle che riguardano gli omosessuali come singoli cittadini e quelle che riguardano le famiglie omosessuali. Que­ste ultime sono vere e proprie discriminazioni stabilite in positivo dalle leggi, mentre nel primo caso la discriminazione è costituita dalla mancanza di norme che proteggano i singoli cittadini e cittadine omosessuali da comportamenti sociali aggressivi e discriminatori: si tratta però non solo di una mancanza di protezione, ma anche di una discriminazione vera e propria, perché le altre minoranze che, come gli omosessuali, sono oggetto di aggressioni e discriminazioni sociali sono da anni protette da specifiche norme di legge.

È vero che a rigore le norme costituzionali dovrebbero essere in teoria sufficienti ad assicurare un grado di protezione adeguato. Però in que­sta materia è molto difficile che i giudici siano così probi e coraggiosi da applicare - come pure potrebbero - in modo rigoroso quella parte dell'art. 3 primo comma della Costituzione [l’articolo recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, ndr. ] che, dopo avere assicurato a tutti i cittadini "pari dignità sociale" e uguaglianza di fronte alla leg­ge, vieta esplicitamente anche ogni discriminazione fondata su parti­colari "condizioni personali".

In effetti non risultano casi in cui questa disposizione sia stata utilizzata per tutelare gli omosessuali contro comportamenti discriminatori dei privati o della Pubblica Ammini­strazione. Sarebbe anche meglio in linea di principio che fosse il Parlamento ad affrontare la questione, dato che altrimenti si potrebbe imputare, anche se in questo caso ingiustamente, ai giudici, di avere esercitato poteri sostanzialmente "politici".

Non è questa, invece, come accennato, la situazione dei cittadini (o anche delle persone che non siano cittadini) appartenenti ad altri gruppi oggetto di discriminazioni sociali: donne, minoranze razziali, etniche, linguistiche, religiose.

A tutela di questi gruppi esistono norme di protezione, che sono precisamente leggi di attuazione dell'art. 3; esse non si estendono però anche agli omosessuali. Si tratta per esem­pio delle discriminazioni sul lavoro, vietate a cominciare dallo Statuto dei lavoratori e dalla normativa sulla parità fra uomini e donne. Si trat­ta della normativa prevista per reprimere gli "hate crimes" (delitti cau­sati dall'odio nei confronti di particolari gruppi sociali) prevista dalla c.d. legge Mancino.

Tutelare alcuni gruppi tradizionalmente oggetto di discriminazioni, aggressioni e persecuzioni, e non altri, costituisce una discriminazio­ne assolutamente intollerabile, soprattutto se si considera che una caratteristica comune dei gruppi già tutelati e degli omosessuali con­siste nel fatto che, in tutti questi casi, gli individui si trovano a essere parte del gruppo senza neppure averlo scelto, ma solo perché così è a loro capitato: così come nessuno "sceglie" di essere nero o ebreo (anche se ovviamente può decidere di vivere più o meno "orgogliosa-mente" tale condizione), anche l'omosessualità (o la bisessualità, o la transessualità) è una variante naturale dell'identità umana, minorita­ria da sempre e ovunque, di cui uno si accorge, è materia di constata­zione, non di scelta volontaria.

L'individuo si accorge, cioè, che i suoi desideri affettivi ed erotici si rivolgono verso persone del proprio ses­so nello stesso modo spontaneo e naturale in cui, perla maggioranza della popolazione, avviene l’opposto. E ciò nonostante che tutto, non solo famiglia e cultura dominante, ma anche i coetanei, spinga in senso contrario.

Per conseguenza, l'idea della liceità di discrimina-re sulla base dell'orientamento sessuale è strutturalmente identica, più che a una generica intolleranza, al razzismo in senso forte, biolo­gico, perché anche in questo caso si colpiscono le persone sulla base della loro identità o di comportamenti che sono la conseguenza normale, naturale, diretta di tale identità personale.

Da questo punto di vista, il divieto di discriminare sulla base dell'omosessualità non c'en­tra nulla con il sesso o con particolari "stili di vita", ma è solo un caso particolare di un principio più generale di libertà e di uguaglianza formale, a parole universalmente condiviso.

Ed è ovviamente del tutto irrilevante stabilire, se mai lo si stabilirà, se l'orientamento sessuale di un individuo (eterosessuale, omosessuale, bisessuale o transessuale che esso sia) abbia radici organiche e genetiche o se invece vada ricol­legato a insondabili e inafferrabili esperienze psicologiche risalenti alla più remota infanzia, dato che, nell'uno come nell'altro caso, il risultato non cambia: si tratta comunque di una identità personale "ascritta", che è cioè oggetto di mera constatazione e non di scelta da parte dell'individuo interessato.

Purtroppo, dato che in Italia su que­sto argomento si è poco riflettuto e dibattuto pubblicamente, c'è un sacco di gente che, per ignoranza spesso incolpevole, vede l'omoses­sualità come una questione di "scelta di stili di vita", o come un feno­meno di costume, se non addirittura di moda. In realtà gli omosessua­li sono più o meno sempre gli stessi, ma oggi non sono più tutti nascosti come un tempo.

Un tempo gli omosessuali non osavano esprimersi, perché la società era meno libera e reprimeva l'omosessua­lità: con la morte sul rogo, con la galera, con i lager, con i gulag. Oggi, da circa trent'anni, nelle società democratiche, la libertà di espressio­ne ha finalmente raggiunto anche gli omosessuali, che hanno potuto testimoniare di questa esperienza di vita. Oggi questa testimonianza la si può ignorare solo in mala fede, e solo in mala fede si può conti­nuare a sostenere tesi arcaiche, come quelle che vogliono attribuire all'omosessualità una valutazione morale, quasi si trattasse di un'op­zione volontaria anziché di una condizione personale che determina una parte considerevole dell'identità dell'individuo.

Chi continua a sostenere queste tesi non fa che dare un alibi alla "naturale" intolle­ranza degli uomini, che hanno sempre discriminato nei secoli i diversi dalla maggioranza. Solo la democrazia liberale ha eroso, arginato, e sta oggi lentamente sconfiggendo, questi atteggiamenti. Così, quelli che oggi non possono più sostenere seriamente, e pretendendo di essere presi sul serio, che il bene della società richiede che si discrimi­nino gli ebrei o i neri, possono continuare a farlo per gli omosessuali senza incorrere nel meritato disprezzo di tutte le persone civili.

Chi oggi si oppone a una legislazione antidiscriminatoria che assicuri agli omosessuali la stessa protezione già assicurata in Italia ai cittadini che fanno parte di altre minoranze, manifesta in realtà, se ne renda conto o meno, le stesse posizioni estremistiche degli antisemiti e dei razzisti veri e propri. Ci sono fra di loro molte persone che sono sem­plicemente ignoranti in buona fede, ma ci sono anche molti politican­ti che pensano di sfruttare a loro vantaggio gli stessi sentimenti disdi­cevoli che, in società in cui fosse ancora diffuso l'antisemitismo, li por­terebbero a cavalcare tali tendenze.

Gli omosessuali sono da sempre presenti "in natura" e in ogni società. E del resto non esiste qualcosa come un modello "naturale" di fami­glia: la famiglia nucleare eterosessuale di oggi è molto diversa dalla famiglia patriarcale contadina, e questa era diversa dalla famiglia poli-gamica islamica; per non parlare della pederastia pedagogica che vige-va nella Grecia classica, o dell'istituto del "levitato" di cui si legge nella Bibbia che era considerato "naturale" e doveroso nell'epoca dei patriarchi.

Non c'è neppure la possibilità di "trasmettere" o di "promuovere" culturalmente l'orientamento sessuale, come dimostra il fatto che, da sempre, si nasce omosessuali in famiglie eterosessuali. I mutamenti culturali possono solo rendere l'omosessualità più visibile: in una società libera gli individui non sono più disposti a vergognarsi della propria identità, in ossequio a una tradizione intollerante e vio­lenta, e rivendicano un'ovvia parità di diritti con il resto della popola­zione.

Si obietta che gli omosessuali non dovrebbero "ostentare" la propria omosessualità. Ma perché mai gli omosessuali e solo loro dovrebbero nascondere oggi il proprio orientamento sessuale, quasi si trattasse di qualcosa di cui vergognarsi?

Questo lo hanno capito anche molte Chiese cristiane: per esempio, praticamente tutte le Chiese protestanti storiche dell'Europa occiden­tale, come, in Italia, i valdesi e i metodisti. Anche se queste Chiese non hanno al loro interno una gerarchia che possa imporre autoritativa­mente la propria opinione a tutti i credenti, tale è ormai l'orientamen­to prevalente fra teologi e pastori protestanti dell'Europa occidentale. Ma anche nel mondo cattolico, nonostante l'atteggiamento oscuran­tista e spesso aggressivo delle gerarchie contro ogni proposta di incivi­limento delle legislazioni in materia, si fa strada la consapevolezza del carattere profondamente immorale dell'omofobia tradizionale, evi­denziato dalle nuove conoscenze di cui oggi disponiamo.

E anche dell'inevitabile legame fra tale atteggiamento e le aggressioni anche fisi­che di cui molti omosessuali sono spesso ancora oggi oggetto. Non dubitiamo che l'attuale atteggiamento oscurantista dei vertici vatica­ni, che si rifiutano perfino di chiedere perdono per i circa centomila sodomiti mandati al rogo nel corso dei secoli con la benedizione della Chiesa di Roma, sarà oggetto di ripulsa, di vergogna, di contrizione per i cattolici in un prossimo futuro.

Si obietta che tutte le norme antidiscriminatorie che sono state propo­ste in questi anni, per esempio in materia di diritto del lavoro, sarebbe­ro inutili, perché sarebbe sufficiente la protezione generica già offerta dalle leggi vigenti e soprattutto dalla Costituzione. Quelle che propo­niamo sono esattamente leggi di attuazione dell'art. 3 della Costitu­zione: se fossero inutili lo sarebbero anche quelle che tutelano le minoranze razziali o religiose o le donne, di cui nessuno si sogna di chiedere l'abrogazione con la scusa che sarebbero superflue.

Si dice altrettanto per le norme che reprimono gli "hate crimes", cioè i delitti causati dall'odio nei confronti di un gruppo sociale e della volontà di terrorizzarne tutti gli appartenenti. Ora, a parte il fatto che, in materia penale, i giudici non potrebbero comunque interpre­tare le leggi vigenti in modo estensivo o analogico, perché ciò è espressamente (e giustamente) vietato dalle norme sull'interpreta­zione della legge penale, va rilevato che chi commette un crimine ai danni di un appartenente a un gruppo oggetto di discriminazione sociale compie in realtà un duplice delitto: non solo commette, per esempio, un omicidio, una strage o un delitto di lesioni ai danni di un individuo singolo, ma si propone e ottiene anche un secondo obiettivo, quello di terrorizzare un intero gruppo sociale colpendone un componente.

Per questo riteniamo che sia giusto che anche que­sto secondo intento criminoso sia previsto e punito dalla legge. Ma, anche chi ritenesse tale impostazione non condivisibile, dovrebbe comunque interrogarsi sulla discriminazione che la normativa attualmente vigente pone fra i gruppi tutelati (minoranze razziali, linguistiche, etniche, religiose) e gli omosessuali, che senza dubbio costituiscono un gruppo parimenti oggetto di odio sociale da parte degli stessi gruppi estremistici. Delle due l'una: o si decide di abrogare la legge Mancino per tutti questi gruppi, o un elementare senso di equità impone di estenderla anche agli omosessuali.

Altrimenti, la classe politica inadempiente si assume una responsabi­lità enorme: la mancata previsione degli omosessuali fra i gruppi sociali menzionati dalla legge vigente rischia di tradursi in una sorta di isti­gazione rivolta a tali gruppi estremisti a riversare la propria aggressività nei confronti dell'unico fra i gruppi sociali da questi avversati che risulta finora non garantito da una specifica tutela penale.

L'aggressio­ne nei confronti di cittadini e organizzazioni omosessuali costituisce infatti attualmente l'unico delitto relativamente meno costoso, in termini di repressione penale, rispetto agli altri tipizzati dalla legge in questione.

Pur rispondendo alla medesima logica, alla medesima ideo­logia, al medesimo atteggiamento psicologico del reo, la commissione di "hate crimes" contro gli omosessuali e le loro organizzazioni risulta in qualche modo pagante, almeno rispetto alle più gravi sanzioni pre-viste dalla legge attualmente vigente a tutela degli altri gruppi sociali dalla stessa tutelati. Non pare il caso di attendere un attentato come quello del pub di Londra o come la crocifissione di Matthew Shepard per estendere anche ai gay italiani la protezione già accordata a tutti gli altri gruppi minacciati da organizzazioni estremistiche.

Si dice che le norme proposte a tutela degli adolescenti omosessuali nelle scuole, spesso oggetto di feroci atti di bullismo, e sottoposti a ter­ribili violenze psicologiche da parte di un'organizzazione scolastica che ne ignora semplicemente l'esistenza, costituirebbe una violazione della libertà di insegnamento o addirittura una "promozione" dell'o­mosessualità.

A parte il fatto che la libertà di insegnamento non tutela la "libertà" di insultare o colpevolizzare per la loro identità gli studenti neri o ebrei, e a parte il fatto che l'orientamento sessuale di un indivi­duo non si presta ad essere "promosso" in alcuna direzione, anche in questo caso chi straparla con tanta leggerezza di argomenti di cui igno­ra totalmente la complessità e la drammaticità si rende corresponsabi­le di tragedie enormi: almeno la metà dei casi di suicidi "inspiegabili" di adolescenti apparentemente senza problemi, studenti brillanti, che non avevano confidato a nessun altro i problemi che li angustiavano, è costituita da adolescenti che hanno constatato da soli, e nel più assoluto isolamento, la propria identità omosessuale e che non hanno potuto confidarsi con nessuno, schiacciati dalla feroce presunzione che gli omosessuali non esistono, che comunque della loro esistenza non si deve parlare, che deridere o coltivare stereotipi insultanti è leci­to e "normale" .

Quasi mai le stesse famiglie hanno sentore della natu­ra del problema dei loro figli, proprio perché si attendono, per igno­ranza, che l'identità omosessuale sia sempre correlata agli stereotipi che attribuiscono agli omosessuali determinate caratteristiche esterio­ri, quelle elaborate nei secoli dalla fantasia popolare, caratteristiche che non si riscontrano se non in un numero molto ridotto di casi (e sono i casi di coloro che nella storia hanno lasciato un segno della loro presenza proprio perché, essendo i soli a cui era molto difficile nascon­dersi, erano oggetto delle più efferate persecuzioni nei secoli e negli anni in cui il destino degli omosessuali scoperti e riconosciuti come tali era il rogo, il lager o il gulag o la galera).

Le organizzazioni gay rice­vono ricorrentemente notizia della ragione di questi suicidi, anche se quasi mai possono rendere note singole situazioni individuali, sia per un ovvio rispetto nei confronti della privacy e del lutto delle famiglie, sia perché quasi sempre chi rivela queste situazioni non è disposto a darne pubblica testimonianza.

Un altro argomento inopinatamente fatto valere contro l'approva­zione di una normativa antidiscriminatoria è quello secondo cui si tratterebbe di un problema di evoluzione civile, non suscettibile di essere risolto formalisticamente con l'approvazione di una legge.

Ma questo argomento potrebbe essere fatto valere a proposito di qualun­que atto illecito compiuto ai danni di qualunque cittadino: se vi fos­se una matura coscienza civile non vi sarebbero né omicidi, né rapi-ne, né furti, né aggressioni, ecc.

Si è mai sentito qualcuno proporre l'abolizione delle norme che puniscono questi delitti, auspicando e attendendo che le sanzioni penali e civili siano sostituite e rese inuti­li da una più evoluta e matura coscienza civile?

Sarebbe forse lecito abolire ogni divieto di discriminazione nei confronti di neri ed ebrei, considerandolo un problema che sarà risolto nel lungo periodo dalla evoluzione civile della società?

Un argomento particolarmente stupido e insultante è stato utilizzato da qualche "rappresentante del popolo" in occasione dei dibattiti par­lamentari riguardanti la legge antidiscriminatoria: si è detto che anche la pedofilia costituirebbe un "orientamento sessuale" e che quindi, una volta vietate le discriminazioni nei confronti degli omosessuali, dei bisessuali e dei transessuali, arriverebbe anche il turno dei pedofili, le cui organizzazioni già si apprestano a formulare richieste consimili. Ovviamente, la ragione per cui la pedofilia (eterosessuale o omoses­suale che sia) va repressa è che, in quel caso, c'è una vittima: la bambi­na e/o il bambino, dei quali non si può presumere la capacità di presta-re un consapevole consenso ad atti sessuali.

Ma in quel caso la legge tutela i bambini, non la moralità dei pedofili. E tuttavia questo del rapporto con la pedofilia è uno dei più abietti e vergognosi argomenti utilizzati da politicanti demagoghi e disponibi­li a cavalcare i più ripugnanti pregiudizi che ancora sopravvivono nel-le fasce più arretrate della società italiana: la stragrande maggioranza dei casi di pedofilia avviene in primo luogo all'interno delle famiglie di origine, ad opera dei genitori, di parenti stretti, di amici di famiglia; e in secondo luogo all'interno di istituzioni educative cattoliche.

Sono noti i casi del cardinale primate d'Austria, coinvolto in una miriade di casi di molestie ai danni di minori affidati alle sue cure, e rimosso dal Vaticano solo dopo che la situazione si era ormai fatta insostenibile, e dopo avere tentato tutte le vie possibili per soffocare lo scandalo; del cardinale primate del Belgio, anch'egli rimosso per avere ripetutamente trasferito ad altri incarichi "educativi" preti cat­tolici coinvolti in analoghe molestie sessuali; degli Stati Uniti, dove si è assistito ad un crollo delle donazioni dei fedeli alla locale Chiesa cat­tolica, perché una parte enorme di quelle donazioni finiva non in beneficenza o a sostenere le spese di culto, ma a pagare i risarcimenti dei danni alle famiglie dei bambini molestati da preti pedofili: tanto che è ormai difficilissimo per la Chiesa cattolica statunitense trovare compagnie di assicurazione disposte ad accollarsi il rischio di garanti-re le curie dal pagamento di tali risarcimenti.

Ciononostante, da parte di ambienti cattolici e da parte dei politici che sostengono le tesi più oscurantiste della gerarchia, si osa ancora accomunare pedofilia e omosessualità, quasi che i casi di pedofilia omosessuale fossero diversi o più diffusi di quelli di pedofilia eterosessuale. E si è perfino sentito l'anno scorso il leader di uno dei principali partiti italiani non vergo­gnarsi di accostare omosessualità e pedofilia, affermando che sarebbe giusto discriminare i maestri elementari omosessuali. Con la stessa logica, tra l'altro, da un maestro eterosessuale maschio ci si dovrebbe attendere il tentativo di molestare le sue allieve bambine, o da parte di una maestra eterosessuale si dovrebbero ritenere probabili molestie ai danni degli allievi maschi.

I casi di discriminazione posta direttamente in atto dalla legge sono invece quelli che riguardano gli omosessuali non come singoli ma in quanto uniti da legami stabili con altri omosessuali: si tratta delle discriminazioni ai danni delle famiglie omosessuali.

Il "principio supremo" (tale secondo la classificazione della Corte costituzionale italiana) dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è in que­sto caso esplicitamente calpestato: i cittadini omosessuali non sono liberi di scegliere quale assetto attribuire ai propri reciproci rapporti giuridici e patrimoniali, come lo sono quelli eterosessuali. A chi continua ad opporsi a qualunque riforma civile in questo campo bisognerebbe chiedere di spiegare, sulla base non dei pregiudizi ere­ditati da epoche di violenza e oscurantismo, ma sulla base dei più elementari valori e dei principi della democrazia liberale (a parole ormai da tutti universalmente condivisi), quale differenza vi sia fra una coppia di omosessuali stabilmente conviventi e un uomo e una donna ultra settantenni che decidano di sposarsi o di risposarsi.

Anche questi ultimi non possono avere figli, né per via naturale, né tramite l'inseminazione artificiale (impossibile a quell'età e del resto vietata), né attraverso l'adozione, ad essi preclusa. Eppure costoro sono liberi di scegliere quale assetto attribuire ai propri reciproci rapporti giuridici e patrimoniali. Due omosessuali non lo sono.

In tutti i paesi civili del nostro continente questa appare sempre più come una discriminazione intollerabile; in Italia anche molti "laici", o sedicenti tali, sembrano tuttora disposti ad accettare il diktat del Vaticano e della parte più troglodita della società italiana, che impongono di conculcare elementari diritti umani in nome dell'os­sequio a una tradizione violenta e intollerante.

Così accade, senza che ciò sia considerato scandaloso e intollerabile, - che a chi ha convissuto con una persona, magari per trent'anni, sia spesso negato perfino il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale, perché questo diritto non è garantito dalla legge, e spesso che le famiglie di origine addirittura impediscano al partner l'accesso al luogo di cura e lo escludano da ogni decisione riguardante il part­ner malato e incapace di agire; - che al convivente omosessuale non sia garantito dalla legge il diritto di subentrare nell'affitto della casa comune in caso di morte o sopravvenuta incapacità del partner; che la legge escluda la reversibilità della pensione del partner omosessuale defunto, e, attraverso l'istituto della riserva a favore dei legittimari, che sia vietato al testatore di lasciare in eredità il proprio patrimonio alla persona con cui ha condiviso l'esistenza; e, anche in assenza di eredi legittimari, che tale eredità venga falcidiata dalla stessa tassazio­ne prevista per i lasciti a persone del tutto estranee al defunto; - che solo in poche regioni sia previsto che gli omosessuali possano aver diritto alla casa popolare, se in possesso dei requisiti di legge, in modo da evitare tra l'altro la necessità della separazione forzata di partner anziani, conviventi da decenni, e del loro ricovero più o meno coatto in "case di riposo".

E tutto questo in nome della carità cristiana. 0, per meglio dire, della "carità" cattolico-romana, perché ,come detto, la posizione delle Chie­se protestanti storiche europee occidentali - e italiane - su queste que­stioni è in netta prevalenza ormai da anni diametralmente opposta a quella vaticana. Tutto questo in nome dei "diritti della famiglia tradi­zionale", ma senza che nessuno si sia mai curato dispiegare perché mai e in quale modo misterioso attribuire paritàdi diritti ai cittadini omosessuali lederebbe, sminuirebbe o comprometterebbe i diritti acquisiti delle famiglie tradizionali.

Queste posizioni fanno ormai dell'Italia una delle nazioni più incivili, in questo campo, dell'intera Europa occidentale. Ormai non più soltanto i paesi scandinavi (la Danimarca da ormai più di dieci anni) e l'Olanda dispongono di legislazioni avanzate su queste problemati­che, ma tutti i grandi paesi europei stanno legiferando in questo senso o lo hanno già fatto: così la Francia, così la Germania, così molte regioni della Spagna. E, nonostante l'aggressività della "destra religiosa" fondamentalista, è di poco tempo fa l'introduzione del "matrimonio gay" anche in un primo Stato degli Usa, il Vermont.

Ciò può stupire solo chi di queste questioni non sa o non vuole sapere nulla: la questione omosessuale è nient'altro che una grande questio­ne di diritti umani e di uguaglianza formale dei cittadini di fronte alla legge.

Come tale essa è considerata da anni da Amnesty International.

Come tale è dibattuta da anni in sede europea: è dal 1984 che il Parlamento europeo ha invitato gli Stati membri ad aggiornare le proprie legislazioni, ed è di quest'anno l'ultima risoluzione in tal senso votata dallo stesso Parlamento (e degli scorsi giorni è l'ultima raccomanda­zione approvata a maggioranza dei due terzi dall'Assemblea parla­mentare del Consiglio d'Europa). Si noti che, se fino all'anno scorso l'atteggiamento liberale del Parlamento europeo poteva essere attri­buito alla maggioranza di sinistra che lo caratterizzava, il voto di que­st'anno dimostra che, nel resto d'Europa, la questione gay è vista nient'altro che come una semplice e ovvia questione di diritti umani: anche da un Parlamento europeo la cui maggioranza è saldamente nelle mani del centro-destra. Ma di un centro-destra liberale, non cle­ricale, oscurantista e brulicante di demagoghi populisti come lo è in maggioranza quello italiano (in compagnia di una parte non irrile­vante del centro-sinistra).

Di fronte a questo atteggiamento di tutte le democrazie liberali dell'Eu­ropa occidentale, si è sentito perfino invocare - in materia di diritti umani! - il principio di sussidiarietà: lo stesso che, in relazione a queste stesse tematiche, viene ora invocato dalla classe politica rumena, il cui rifiuto di depenalizzare i rapporti omosessuali sta compromettendo lo status di quel paese come membro dello stesso Consiglio d'Europa.

A chi non prova vergogna a seguirne le orme, va chiesto molto seriamen­te se ritiene davvero che la persistenza di un pregiudizio fondato sull'o-dio per una minoranza portatrice di un'identità ascritta (cioè non scelta volontariamente dai soggetti interessati) può essere causa di discrimi­nazione giuridica nell'Europa di oggi. In alcuni paesi dell'Europa orien­tale è ancora forte l'antisemitismo: potrebbe forse l'Europa accettare in quei paesi discriminazioni giuridiche nei confronti degli ebrei, in nome del principio di sussidiarietà?

Ebrei e omosessuali sono stati per secoli accomunati da una persecuzione altrettanto sanguinosa, da parte della Chiesa di Roma finché questa ne ha avuto il potere, poi da parte di ogni potere illiberale e autoritario, e da parte del regime nazista che tentò anche per gli omosessuali la strada dello sterminio nei lager. Ma ciò non è bastato né a spingere quella Chiesa a chiedere anche il loro perdono (al contrario, essa si rifiuta esplicitamente di farlo, e chiede anzi il perpetuarsi delle discriminazioni - tornando ai tempi in cui l'aveva chiesto anche nei confronti degli ebrei, pur dopo la caduta del regime fascista), né la cultura e la politica democratiche italiane a considerare la discriminazione nei confronti degli omosessuali altrettanto odiosa quanto quella nei confronti dei neri o degli ebrei.

Alla classe politica italiana chiediamo solo di dirci se una politica del diritto che sia civile nei nostri confronti dobbiamo e possiamo atten­dercela solo da nuovi "criteri di Maastricht" che prima o poi verranno imposti a tutti gli Stati membri delle istituzioni europee, perché intrin­seci all'identità stessa della democrazia liberale, o se essa dispone anco­ra del minimo di dignità e di coraggio civile necessari a porre mano fin d'ora allo smantellamento di ogni residua discriminazione legale nei nostri confronti: e, in tal modo, allo smantellamento di quella cultura della discriminazione e dell'odio di cui tali disposizioni legislative sono figlie e che concorrono a loro volta a perpetuare.

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