Autobiografia bisbetica (e non domata) di Franco Zeffirelli

2 luglio 2019

L'autobiografia di Zeffirelli – versione ampliata di una prima stesura pubblicata vent'anni prima, nel 1986, da Grove Press – conferma tutti i pregiudizi sul suo autore, che spiattella in faccia al lettore i propri amori e i propri odi con candore e spudoratezza: Silvio Berlusconi è un amico carissimo e affezionato (oltre che – ovviamente – un baluardo contro il comunismo), Winston Churchill il più grande statista del Ventesimo Secolo, Madre Teresa un angelo sceso in terra, Luca Ronconi la rovina del teatro italiano, i no-global un'orda barbarica, il politically correct un flagello per la cultura, e via discorrendo.

Le affermazioni controvertibili abbondano, ma se non altro Zeffirelli – con la sua ben nota allergia alla diplomazia – riafferma le proprie posizioni con una spavalderia di cui non tutti avrebbero il coraggio, temendo di farsi dei nemici. Il regista fiorentino, al contrario, sembra quasi godere nel cementare la riprovazione di cui è fatto oggetto da parte del pubblico, dell'intellighenzia e della critica. «A quanti di voi il Papa fa gli auguri di buon compleanno, eh?» sembra dire beffardo – nemmeno troppo tra le righe – ai suoi dettatori, dall'alto di una vita oggettivamente baciata da un successo tutt'altro che effimero, benché Zeffirelli – conservatore nel midollo – dia più volte prova di credere che il massimo traguardo artistico di un regista sia quello di far piangere il pubblico.

È proprio l'elencazione puntigliosa dei trionfi, dei premi, degli omaggi delle teste coronate, degli appellativi di “genio” ricevuti da altri geni conclamati, a rendere non sempre godibile la lettura dell'autobiografia di Sir Zeffirelli (punteggiata – da metà in poi – da un crescendo di implorazioni pleonastiche tipo «Non mi si accusi di immodestia se dico che...»). Va detto però che la prima parte del tomo – che narra la sua infanzia travagliata e la sua gioventù in tempo di guerra sempre sul filo della tragedia – è fluida, avventurosa e più cinematografica della stragrande maggioranza dei suoi film.

Anche la narrazione delle virtù pubbliche e private (e di qualche vizio non capitale) dei suoi amici VIP è accattivante e mai troppo pettegola, con delle vette di camp come la scena surreale in cui Laurence (Larry, of course) Olivier appare davanti al Nostro, in pieno dormiveglia, con pantofole, vestaglia e un asciugamano calato sulla testa recitando la parte della maliziosa balia di Romeo e Giulietta.

Sul versante omosessuale, Zeffirelli si racconta con calcolata spregiudicatezza nel torrido capitolo Sesso: sesto senso, sulla scia del coming out fatto dieci anni prima sulle colonne della rivista statunitense The Advocate. Narra minutamente gli smanacciamenti tra ragazzini della sua adolescenza, l'amore insopportabilmente platonico con un compagno di liceo, la frequentazione – assieme all'amico Alfredo Bianchini – della casa di un antiquario fissato con Proust (tanto stereotipato da sembrare inventato), nonché il rapporto altalenante con Visconti, dagli innumerevoli strascichi amari. Anche qui però le esternazioni azzardate non si contano: una delle più inquietanti riguarda il resoconto delle molestie subite da un frate...

Con quest'ultimo, Zeffirelli è di un'indulgenza sconcertante: «Penso sempre a quel povero frate che ebbe un momento di debolezza con me. Spero che la sua anima riposi in pace, perché non voleva farmi alcun male, soltanto esprimere col corpo il bene che mi voleva». In tempi di #metoo (movimento che ha coinvolto il Nostro, suo malgrado, a causa delle accuse degli attori Bruce Robinson e Johnathon Schaech) questa frase suona particolarmente sbagliata, ma perlomeno Zeffirelli ci risparmia spericolate correlazioni tra questo episodio e le sue future tendenze omosessuali, anzi, azzarda una flebile e non del tutto pertinente denuncia del celibato ecclesiastico (siamo certi che il fatto di avere una moglie avrebbe distolto il “caro frate” dalla sua passione per i giovinetti?).

Più prevedibili sono i paragrafi in cui il regista esprime il suo ben pubblicizzato disprezzo – coerente con la sua età e col suo orientamento politico, ma pur sempre fastidioso – per il movimento gay e per i relativi Pride, etichettati banalmente come “carnevalate”. La visione che Zeffirelli ha dell'omosessualità sconfina nel superomismo: nella sua ottica la “libertà omosessuale” non è per tutti, ma solo per chi se la guadagna con il proprio genio, col proprio successo e coi propri soldi, che garantiscono una sorta di lasciapassare presso la società (rigorosamente eterosessuale). Il fruttarolo, il meccanico o il postino – sembra suggerire – si ingroppino in silenzio nei vespasiani e non ostentino.

Altrettanto “vintage” e scontata è la contestazione del termine “gay”, che nell'ottica di Zeffirelli è un eufemismo riduttivo, peggiore di qualsiasi insulto. Si percepisce chiaramente il suo rimpianto per i bei tempi in cui lui e gli altri “fiorentini di piazza di Spagna” (Piero Tosi, Mauro Bolognini, Alfredo Bianchini, Paolo Poli, Danilo Donati etc.) espellevano dai loro consessi «con una bufera di urla laceranti» chiunque avesse osato pronunciare la parola incriminata: «Gay sarai te e tu' nonno! Qui non ci sono gay, ci sono soltanto uomini per tutte le stagioni». Sarà... ma comunque uomini per una “stagione” molto più che per le altre.


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