Witold Gombrowicz

Scriveva ogni giorno dalle dieci alle dodici, dopo aver ascoltato a tutto volume Beethoven. Amava la musica, il teatro e la filosofia, meno la letteratura che però, diceva, era l'unica cosa che sapeva fare. In tempi difficili aveva lavorato per nove anni in banca, ma sosteneva di non sapere cosa fosse un assegno. Quali fossero i suoi gusti filosofici e letterari è facile intuirlo leggendo le sue stesse opere (Rabelais, Mann, Heidegger, Nietzsche, Schopenauer…). Era metodico, rigorosissimo, eccentrico, proverbialmente misogino. Ha vissuto in povertà quasi tutta la vita, rifiutando sistematicamente di compiacere chiunque (politici, intellettuali, compatrioti) per cambiare la sua situazione. Dal punto di vista delle convenienze politiche e sociali, ha saputo e voluto scrivere sempre il libro sbagliato al momento sbagliato. Ha trascorso ventiquattro anni in Argentina, ma non ha mai imparato a scrivere in spagnolo. La sua opera, saldamente intrecciata ai casi e alle scelte della sua vita, si offre al lettore con una coerenza sorprendente dai primi racconti fino all'ultimo scritto autobiografico e si mostra vicina, quando non anticipatrice, a movimenti e correnti che il suo autore per altro non necessariamente amava, dallo strutturalismo all'esistenzialismo.

Oggi si potrebbe stilare una lunga lista di nomi illustri disposti a dichiarare Witold Gombrowicz uno dei maggiori scrittori del '900. Eppure continua a non essere troppo popolare, almeno in Italia, anche se da quindici anni ormai Feltrinelli ne sta ripubblicando tutta l'opera, affidata alle cure di Francesco M. Cataluccio. Si tratta pur sempre di un autore difficile, caratterizzato da uno stile «fantastico, eccentrico e strampalato», volto a «inseguire il maniacale, il folle, l'assurdo (non privo però di una sua solenne logica) e la celebrazione del nonsenso» (così lo descrive lo stesso Gombrowicz in Testamento [1]).


Vita di uno scrittore "tra"

Witold Gombrowicz nasce a Maloszyce nel 1904, in una ricca famiglia di nobili origini ma parzialmente caduta in disgrazia. Il padre Jan e la madre Antonina Kotkowska avevano già avuto altri tre figli.

Negli anni '10 i Gombrowicz si trasferiscono a Varsavia, dove Witold compie gli studi laureandosi in legge nel 1926.

La passione per la scrittura nasce abbastanza presto. Ancora adolescente, Gombrowicz si appassiona alla storia di famiglia e stende Illustrissime familiae Gombrovici, di cui restano solo pochi frammenti, mentre nulla rimane del suo primo romanzo, che così lo scrittore ricorda in Testamento:

A quasi vent'anni e sull'orlo della disperazione, decisi di scrivere un romanzo deliberatamente "brutto", composto precisamente con quanto in me c'era di più brutto, vergognoso e inconfessabile. Chissà che non sia stata la mia cosa più audace... e magari la più importante. Ne diedi da leggere una copia dattilografata a un signora di cui mi fidavo e che credeva in me. Lei lo lesse, me lo restituì e senza una parola e non volle più vedermi. Terrorizzato, lo gettai alle fiamme. (p. 31)

Numerose sono le fonti del disagio che Gombrowicz, già in gioventù, si trova a vivere. Anzitutto la famiglia che non lo comprende, non ne sostiene le ambizioni artistiche e lo segna profondamente con le sue idiosincrasie (soprattutto quelle della madre). Poi una realtà sociale (quella di un'alta borghesia fusa con i resti dell'aristocrazia) che fugge a favore di un proletariato cui comunque non appartiene, non solo per estrazione sociale ma anche per formazione culturale. Quindi la Polonia, per tutta la vita una patria che non ama ma dalla quale non riesce a separarsi, e che considera immatura (limite che Gombrowicz ritiene proprio dell'intera modernità), passiva e indifferente ai grandi eventi della storia, e soprattutto soggiogata al cattolicesimo, che lo scrittore sconfessa già in giovane età (in Testamento scrive: «Il distacco da Dio, faccenda di capitale importanza che consente alla mente di aprirsi alla totalità del mondo», p. 33). Infine una sessualità che egli stesso considera tanto precoce quanto irregolare.

Nel Diario Gombrowicz si definisce a più riprese un uomo «tra», la cui non-appartenenza lo tiene perennemente sospeso tra realtà in opposizione (cultura/incultura, nobiltà/proletariato, Polonia/Argentina, Gioventù/Maturità, eterosessualità/omosessualità), nessuna delle quali gli è mai accessibile in modo soddisfacente. In Testamento arriva a descriversi come «una specie di mostro attratto da tutte le deformità e le patologie dell'esistenza», animato «dall'assoluta certezza di essere anormale, malgrado tutti i sintomi della mia sana mediocrità» (pp. 34-35).

Una situazione di "anormalità" che lo scrittore registra con candore già nei racconti della sua prima opera pubblicata, Memorie del tempo dell'immaturità, uscita nel 1933 e poi sottoposta a revisione e rimessa in circolazione nel 1956 con il titolo Bacacay.

La raccolta riceve più che altro stroncature, sicché Gombrowicz, mentre inizia a frequentare l'ambiente intellettuale della capitale polacca, aspetta ancora qualche anno prima di abbandonare il lavoro di avvocato per dedicarsi interamente alla scrittura.

Nel '35 scrive la sua prima opera teatrale, Ivona, incentrata su una ragazza la cui bruttezza attrae un principe. La malinconica Ivona non parla mai ma osserva tutto e tutti, e proprio questo suo atteggiamento, unito ai suoi numerosi difetti, inquieta ed esaspera la corte, che alla fine ne sentenzia la messa a morte.

Nel 1937 segue il primo romanzo, Ferdydurke, che sembra iniziare con una grottesca rilettura delle Metamorfosi kafkiane: il protagonista, adulto, si sveglia un mattino e scopre di dover andare a scuola... Come già i racconti di Bacacay, il romanzo anticipa molti dei caratteri, dei temi e dei motivi filosofici propri della scrittura e del pensiero di Gombrowicz.

Nel vano tentativo di guadagnare qualche soldo, nel 1939 lo scrittore si dedica a Gli indemoniati, esperimento d'appendice di sapore gotico pubblicato a puntate. Ma il libro non ha un grande successo, e oltretutto lo scoppio della guerra ne interrompe l'uscita (salvo che su un giornale di provincia). Gombrowicz si è poi rifiutato di riconoscerlo come suo e il romanzo è stato ristampato solo postumo.

Allo scoppio della guerra Gombrowicz si trova a Buenos Aires, dove risiederà per ventiquattro anni, rifiutando la guerra prima e la Polonia comunista poi. Gli anni dell'esilio in Argentina sono segnati dalla povertà, dalla vita bohémienne, dall'opprimente lavoro in banca per sostenersi (lasciato nel '55 per vivere senza grandi mezzi della sola attività di letterato) e dalla forte attrazione provata nei confronti della sottocultura omosessuale della capitale, concentrata nel quartiere del Retiro, il cui parco era un celebre luogo di battuage gay, frequentato soprattutto dai marinai.

Nel 1947 ripubblica Ferdydurke in spagnolo, insieme a una nuova opera teatrale, Il matrimonio. Il rapporto con la nuova patria argentina, quello di amore e odio con la vecchia patria polacca e l'idealizzazione della gioventù e della bellezza maschile sono i temi centrali di Trans-Atlantico (1953), forse la sua opera più autobiografica, nonostante i ricordi siano deformati da uno stile fortemente caricaturale. Gombrowicz vi rievoca i suoi primi anni argentini, le frequentazioni del Retiro e i difficili rapporti con gli emigrati polacchi attraverso la vicenda dello scontro tra un ricco omosessuale, Gonzalo, e un severo dignitario polacco per il controllo del bellissimo figlio adolescente di quest'ultimo, Ignazio.

Quello stesso anno Gombrowicz inizia a stendere un diario che pubblica con regolarità su Kultura, rivista degli emigrati polacchi pubblicata a Parigi, e poi in tre volumi nel '57, nel '62 e nel '66. Avviato con poca convinzione, il Diario diventa presto un'opera tra le più ambiziose dello scrittore, sospesa tra autobiografia, invenzione letteraria e asistematica riflessione filosofica.

Durante la destalinizzazione, nel 1956, si apre finalmente per Gombrowicz la possibilità di far circolare in patria alcune sue opere e di rappresentare i suoi lavori teatrali, ma nel 1957, alla ripresa della censura, vieta l'ulteriore diffusione dei suoi lavori in Polonia fino a quando il suo Diario non sia stato pubblicato integralmente, cosa che avverrà solo a partire dal 1986.

Nel 1960 pubblica Pornografia, il romanzo in cui più esplicita si fa la riflessione sul rapporto tra Gioventù e Maturità - una costante dell'opera gombrowicziana - attraverso la vicenda di due uomini di mezza età che subiscono il fascino di un garzone adolescente e si convincono che sia destinato a sposare una ragazza di cui in realtà è solo amico. Per spingerli l'uno nelle braccia dell'altra li coinvolgeranno in un omicidio. Dipanato sullo sfondo della guerra (l'azione si svolge nella Polonia del 1943 così come la poteva immaginare Gombrowicz, che era lontano ormai da vent'anni), l'intreccio di Pornografia prepara l'opera filosoficamente più ambiziosa di Gombrowicz, Cosmo (1965), anch'essa costruita sullo sforzo inumano di rintracciare un ordine (in termini più gombrowicziani, di imporre una Forma) nel caos del mondo, attraverso l'ideazione di collegamenti logici tra fatti inusuali (a partire dall'impiccagione di un passero) in realtà del tutto slegati tra loro, sicché il complicato castello messo in piedi per dare un senso al mondo pare piuttosto il frutto di un delirio maniacale.

All'inizio degli anni '60 l'Europa inizia finalmente a scoprire Gombrowicz, tanto che nel 1963 lo scrittore lascia a malincuore l'Argentina, invitato a Berlino dalla Fondazione Ford. L'anno successivo si stabilisce in Francia, prima a Royamount e poi a Vence, vicino a Nizza. Qui vive i suoi ultimi anni con la giovane studentessa canadese Rita Labrosse, venuta in Francia per studiare Colette. Con Rita Labrosse lo scrittore "incapace di amare", che dopo aver lasciato la casa materna a 34 anni non aveva più voluto saperne di avere vicino una donna, costruisce un rapporto platonico più che altro paterno, ma comunque la sposa pochi mesi prima della morte, dovuta all'aggravarsi di una malattia polmonare di cui soffriva fin da ragazzo.

Negli ultimi anni aveva pubblicato un'ultima opera teatrale, Operetta (1967), e Testamento (1968), una lunga riflessione sulla propria vita e sulla propria opera che è un ideale complemento del Diario. Nato come intervista, Testamento ne ha mantenuto la forma anche se Gombrowicz ha scritto sia le domande che le risposte.


Dagli incidenti giovanili all’«omosessualità furente»

Sebbene fin da Bacacay esibisca grandi ambizioni di introspezione psicologica e di riflessione filosofica, e un gusto del paradosso e dell'assurdo che raggiunge forme di satira angosciata vicine a certo Kafka, l'opera di Gombrowicz non punta solo ai massimi sistemi: costante è anche il tentativo di comprendere il presente, di rielaborare il rapporto con la patria lontana, di demolire le pretese di ogni forma di nazionalismo. Tutti questi elementi si intersecano a una costante riflessione sul corpo e sulla sessualità, che occupa un posto di primo piano in tutti gli scritti di Gombrowicz. Una delle sue frasi più famose, scritta nel Diario e ripetutamente citata dallo stesso Gombrowicz, è: «non credo in una filosofia non erotica. Diffido del pensiero asessuato». Misoginia a parte, è in questa sistematica riflessione sulla sessualità che è da ricercare uno degli aspetti più interessanti e originali dell'opera di Gombrowicz, anticipatrice di molte riflessioni successive.

Il concetto centrale, persino ossessivo, è quello della Gioventù, idealizzata e disprezzata ad un tempo, luogo d'anarchia e di felice incultura, imperfetta per sua natura, attratta e assediata dalla Maturità che cerca di addomesticarla con insegnamenti di una saggezza che non gli può essere propria. L'esistenza dell'uomo si esaurisce fondamentalmente in una dialettica tra gioventù e maturità, nella quale si inserisce l'opera di Gombrowicz, come egli stesso spiega in Testamento: «Nella mia scrittura [...] esiste una tendenza - diciamo così clandestina, illegale - a completare il naturale sviluppo umano dall'immaturità alla maturità con una tendenza contraria, e diretta verso il basso» (p. 145). È forse ancora più chiaro nell'introdurre l'edizione francese di Pornografia:

L'uomo, si sa, tende all'assoluto. Alla pienezza. Alla verità, a Dio, alla maturità totale... Comprendere tutto, realizzarsi completamente, ecco il suo imperativo. In Pornografia invece, secondo me viene fuori un altro scopo dell'uomo, uno scopo più segreto, e in un certo senso meno legale: il suo bisogno dell'Incompiutezza... dell'Imperfezione... dell'Inferiorità... della Gioventù. [3]


Il rapporto si può fare più complicato, le influenze reciproche, ma la gioventù per Gombrowicz mantiene dei forti limiti strutturali (sintomatica la critica feroce ai movimenti giovanili del '68 che Gombrowicz fa poco dopo il passo di Testamento appena citato), privilegio dell'età adulta, che d'altronde a sua volta anela alla giovinezza.

Ogni leitmotiv del Diario [4] sembra ricollegarsi all'attrazione per la gioventù. Anzitutto il rifiuto di inserirsi nella cerchia dei letterati, sia in Polonia che in Argentina, di cui avverte tutta la vacuità («io adoravo le tenebre del Retiro, e quella gente non vedeva che le luci di Parigi», p. 189). È ad esempio proverbiale l'antipatia di Gombrowicz per Borges.

Alla gioventù si ricollega anche l'opposizione ai nazionalismi e alla guerra, «essendo le guerre principalmente guerre di ragazzi, guerre di minorenni... addestrati alla più ceca disciplina per imparare a versare il proprio sangue quando se ne fosse presentato il bisogno» (p. 201). Dietro a queste riflessioni, e a tante opere di Gombrowicz (fin da Bacacay), c'è anzitutto il rifiuto dei ruoli di genere socialmente codificati, rifiutati anche in quanto legati a filo doppio proprio al nazionalismo guerrafondaio, dal quale la gioventù deve essere salvata e al quale è preferibile l'attrazione «verso il basso» (ciò che è rappresentato esemplarmente in Tans-Atlantico). Nel Diario scrive, ad esempio: «non dovevo essere un uomo, ma un essere umano che per caso era anche un uomo; non identificarmi nella mascolinità, non volerla...» (p. 204). E ancora, nella stessa pagina:

Ah! Conoscevo bene la virilità che gli uomini si fabbricavano tra loro sfidandosi e forzandosi a vicenda per il timor panico della donna insita in loro, li conoscevo, quegli uomini tesi a raggiungere l'"uomo", maschi convulsi che si impartivano a vicenda lezioni di mascolinità. Quel tipo d'uomo accentuava artificialmente i suoi tratti; esagerava la sua pesantezza, la sua brutalità, la sua forza e la sua gravità; era il violentatore, quello che conquistava con la forza. Aveva paura della bellezza e della grazia, armi della debolezza; sprofondava nella maschia mostruosità diventando licenzioso e triviale, oppure goffo e ottuso. [...] Quindi ero certo che il toro potenziato avrebbe caricato anche me, appena avesse fiutato l'attentato che intendevo sferrare ai suoi preziosi genitali.

Alla concezione tradizionale della virilità, rilanciata negli anni dei vari fascismi e della guerra, Gombrowicz contrappone proprio il suo culto della gioventù: «avevo sempre avuto la tendenza a cercare nella gioventù, mia e altrui, un rifugio contro "i valori", ossia contro la cultura. [...] La gioventù è un valore in sé, qualcosa che distrugge tutti gli altri valori di cui, essendo autosufficiente, non ha bisogno» (p. 183).

Infine, alla gioventù si ricollega l'attrazione nei confronti dell'ambiente omosessuale di Buenos Aires, in cui il Gombrowicz del Diario sostiene di non andar cercando avventure erotiche ma solo il contatto rivitalizzante con una gioventù addirittura «demoniaca». Il Retiro diviene così «regno della degradazione dove la gioventù, già degradata in quanto gioventù, subiva un'ulteriore degradazione in quanto gioventù plebea e proletaria» (p. 186).

La Gioventù è dunque il concetto centrale tanto dell'autore quanto dei suoi personaggi, soprattutto di quelli cui presta nome, cognome, professione e numerosi tratti della personalità, sebbene noi siano sempre o solo questi a fargli da alter ego (in Pornografia, ad esempio, Gombrowicz si rispecchia più in Federico che in Witold). Scrive in Testamento, già a proposito della sua adolescenza:

Sì: odiavo il salotto e adoravo segretamente la dispensa, la cucina, la scuderia, i garzoni e le ragazze di fattoria [...] La mia sessualità precoce, nutrita di guerra, di violenza, di canti soldateschi e di sudore mi spingeva verso quei corpi di fatica e poco puliti. (p. 27)

Ad attrarre Gombrowicz, autore e personaggio, è così il corpo giovane, e soprattutto maschile: il corpo femminile, vincolato alle esigenze della riproduzione, non può raggiungere la bellezza ideale di quello di un ragazzo, meglio se incolto. La folgorazione più cocente di quegli anni è proprio per un ragazzo:

C'è una scena che non ho mai dimenticato e che spesso mi torna in mente: un garzone di fattoria che, in giacchetta e a testa nuda sotto la pioggia, parla a mio fratello Janusz che invece ha il cappotto e l'ombrello. Il superbo rigore di quegli occhi e quelle labbra sotto la pioggia battente... La bellezza allo stato puro. (Testamento, p. 26)

Le folgorazioni del personaggio Witold per Ignazio in Trans-Atlantico o per Carlo e Beppe in Pornografia sono esattamente dello stesso tono. Si prenda quella per quest'ultimo:

Quale non fu il mio spavento, o la mia emozione, nello scorgere un (ragazzo) la cui snellezza era la copia conforme della snellezza di (Carlo), sdraiato per terra e vivo. Ma "vivo" era dir poco, perché lì giaceva la grazia fatta persona: una chioma d'oro, due immensi occhi scuri, una pelle bruna e abbronzata che si intravedeva qua e là nell'intrico selvaggio delle braccia e delle gambe nude rannicchiate sul pavimento.

Un biondino selvatico e rapinoso, scalzo, contadino ma irraggiante bellezza da tutti i pori, un delizioso idoletto sporco che lì sul pavimento faceva risuonare una grazia acerba. (p. 83)

Dichiarandosi incapace di amare (Testamento, p. 27), anche il Gombrowicz maturo si abbandonerà a simili infatuazioni momentanee, preferendo frequentare assiduamente i giovani omosessuali proletari in luogo dei compatrioti emigrati o dell'intellighenzia locale. E non solo a Buenos Aires: nel Diario ricorda così un chango incontrato a Santiago:

Non so che cosa fu: se la santa semplicità di quel collo o quelle mani a malapena capaci di tracciare uno scritto, rese ruvide a autentiche dal lavoro fisico... Fatto sta che il mio spirito rese l'anima. Fiasco completo. Sentii sulle labbra un gusto di rossetto. (p. 422)

Come i suoi protagonisti, così l'autore del Diario, forse per compensare lo squilibrio della sua attrazione per i ragazzi rispetto a quella per le ragazze, sente la necessità di negare la sua omosessualità nel momento della riflessione. Gombrowicz si muove così continuamente tra attrazione e repulsione nei confronti dell'omosessualità, fin da questa dichiarazione: «per chi volesse saperlo desidero precisare che, a parte qualche sporadico incidente in giovanissima età, non sono mai stato omosessuale» (p. 185).

In Testamento questi "sporadici incidenti" paiono assumere una dimensione più consistente:

alla soglia della trentina non avevo al mio attivo un solo amore normale. Per motivi che ignoro non volevo l'amore, anzi lo detestavo; il mio erotismo era tragico, fisico, sempre alla disperata ricerca di qualcosa di prezioso che secondo me potevo trovare solo nelle sfere più infime della vita. L'impulso sessuale mi spingeva sempre verso il basso: nei suoi slanci più sublimi non andava oltre qualche amore cameratesco lieve e divertito, mentre in quelli più bassi... Basta, lasciamo stare gli splendori e la santità di questa miseria. (p. 55)

È difficile credere che ciò che "sporadicamente" accadeva con i garzoni di fattoria tanto ammirati in gioventù non si ripetesse con i putos del Retiro, e non mancano testimonianze in questo senso. Ma il fatto è che il Diario non è una fonte attendibile: autobiografia e invenzione letteraria pura e semplice vi sono continuamente mischiate, le confessioni si alternano a volute bugie e a studiate reticenze. Si deve ricordare che il Diario non è mai stato pensato come testo privato (in Testamento, a p. 124, scrive: «i diari di solito vengono comprati perché l'autore è celebre. Io invece l'ho scritto per diventare celebre. Ecco dove sta il qui pro quo»). È lo stesso Gombrowicz a invitare il lettore a non credere a ciò che gli va raccontando (così come alla fine di Testamento, probabilmente nel complesso più attendibile del Diario, ammette di aver offerto una versione romanzata della sua vita).

In passato, ad esempio, come dimostrazione dell'eterosessualità di Gombrowicz è stata utilizzata la parte finale del Diario, nella quale l'autore racconta di un figlio illegittimo che lo raggiunge in Francia dal Brasile, ma la vedova dello scrittore ha poi svelato che si tratta di un episodio completamente inventato.

Oltre a tutto ciò, le pagine del Diario dedicate al Retiro (all'inizio del 1955) sono particolarmente ambivalenti e ricche di excusationes non petitae. Gombrowicz cerca di sublimare la propria attrazione nei confronti dei ragazzi nei termini del culto della giovinezza e della sua immatura energia vitale e pensa forse di riuscire più convincente mostrandosi disponibile a prendere in considerazione l'idea di poter essere attratto dagli omosessuali del Retiro in quanto in sé omosessuale, per poi negarla in favore di motivazioni puramente estetiche o filosofiche:

Naturalmente, la prima cosa a cui pensai fu che in me si facessero strada sotterranee tendenze omosessuali. Era un fatto che avrei anche accolto con soddisfazione, purché mi avesse collocato in una realtà precisa... Ma no: proprio nello stesso tempo avevo instaurato con una donna dei rapporti la cui intensità non lasciava nulla a desiderare. (pp. 186-187)

Qualche pagina dopo gli accenti si fanno persino più spregiativi, in riferimento alla «più estrema e furente omosessualità» (p. 199), quella dei putos alla continua ricerca di ragazzi da portarsi a letto (il Gonzalo di Trans-Atlantico, ispirato all'amico Virgilio Piñera, uno scrittore cubano omosessuale in esilio, vuole esserne un'incarnazione emblematica). Gombrowicz distingue questa omosessualità al quadrato dall'«omosessualità "normale"» in cui si era imbattuto da tempo in quanto, ricorda lo scrittore, diffusa negli ambienti intellettuali. Sull'argomento, che dice di affrontare «malvolentieri», scrive:

Giù, nei bassi strati, non la si prende così sul tragico né con tanto sarcasmo, e i ragazzi del popolo la praticano talvolta per mancanza di donne, a quanto pare senza che questo li depravi o impedisca loro un normale matrimonio [...] Ancora una volta tornavo a chiedermi se, nonostante tutto, non fossi uno di loro. Non era possibile, anzi diciamo pure verosimile, che fossi anch'io un pazzo della loro specie, in cui una qualche complicazione organica avesse soffocato l'attrazione fisica? Conoscevo lo scetticismo con il quale accoglievano le varie "scappatoie" e tutto quello che, secondo loro, non era che un girare attorno alla brutale verità. E invece no. Perché mai dovevo considerare morbosa la mia attrazione per la freschezza, per la vita giovane e non ancora stanca? [...] L'unica differenza tra me e gli uomini "normali" era che il bagliore di quella dea - la gioventù - io lo adoravo non solo nella ragazza ma anche nel ragazzo, che di quella dea era un'incarnazione più perfetta che non la ragazza... Sì: il mio peccato,ammesso che esistesse, si riduceva al fatto che osavo ammirare la gioventù a prescindere dal sesso, che la sottraevo al dominio di Eros e che sul piedistallo dove loro ponevano una giovane donna osare porre un giovane uomo. (pp. 199-200)

Come si vede, Gombrowicz rifiuta di identificarsi tanto con «gli uomini "normali"», ossessionati dai ruoli sociali e dalla virilità che impedisce loro l'apprezzamento della bellezza, quanto con gli omosessuali, specie quelli «furenti». Che la sublimazione dell'attrazione per i ragazzi, in chiave estetica, filosofica o ideologica, sia poco attendibile sul piano biografico, ancorché sostenuta con convinzione dall'autore (ma da un autore che non nasconde di truccare le carte sul suo passato), è un fatto piuttosto evidente a chiunque legga l'opera di Gombrowicz con attenzione, anche senza bisogno di accogliere la dubbia testimonianza di Piñera secondo cui Gombrowicz arrivò anche a prostituirsi per mantenersi. Sebbene abbia trattato direttamente di omosessualità solo in alcuni racconti di Bacacay, in Trans-Atlantico e in un'opera teatrale rimasta incompiuta cui stava lavorando quando morì, tutta l'opera di Gombrowicz è percorsa da profonde, ripetute e chiarissime tensioni omosessuali [4], un fatto che rimane indiscutibile anche qualora si volessero considerare Diario e Testamento alla stregua di pure invenzioni letterarie (il che sarebbe riduttivo).

Paradossalmente, quando l'attrazione è esercitata insieme da un ragazzo e da una ragazza, come nel caso di Carlo e Enrichetta in Pornografia, le tensioni omosessuali si fanno persino più evidenti, perché la superiore attrazione esercitata dal corpo maschile incrina sistematicamente la simmetria.

Si tratti di incapacità di abbandonarsi fino in fondo ad attrazioni comunque confessate, o incapacità di dissociare quell'attrazione da un senso di potenziale degradazione, di certo è facile riconoscere nella continua oscillazione tra ammissione e negazione la perenne incapacità di Gombrowicz di sentirsi parte di alcuna realtà. Nel momento in cui nemmeno l'omosessualità gli offre una soddisfacente ed esauriente realtà in cui riconoscersi, lo scrittore rifiuta di ammettere di appartenervi, sebbene ammetta altrettanto la sua non-appartenenza all'eterosessualità così come è configurata dalla società tramite ruoli stereotipati, soprattutto nel momento in cui si fanno radice del nazionalismo. La sessualità pare insomma l'ennesimo aspetto dell'esistenza in cui Gombrowicz si sente «tra», sospeso tra due poli opposti tra i quali non può (o non vuole) scegliere.

Certo l'omosessualità è solo un tassello di un mosaico molto complicato, sia nell'opera sia, con tutta probabilità, nella vita dell'autore, ma è un tassello centrale, più di quanto lo stesso Gombrowicz non sembri disposto ad ammettere. Centrale, in particolare, in quella rilettura della sessualità che vuole farsi spinta eversiva, dissacrazione dei valori della tradizione, rifiuto del lascito di un mondo immaturo. Tutta l'opera di Gombrowicz è un invito a non seguire la strada segnata, anche se il Diario, con l'immodesta modestia che gli è propria, chiude con un: «Ribellarmi? Ma come? Io? Un servo?».
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