Gli studenti in Roma nel secolo XVI

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[Saggio di Antonino Bertolotti, (1834-1893). Digitalizzato dall'Internet Archive [1]]

/p. 141/ Era sul principio dell'anno 1555 rettore della Università degli studi in Roma, Camillo Peruschi, romano, protonotario apostolico, che già da venticinque anni teneva quell'ufficio. Il Renazzi, il quale nella sua pregevole storia dello Studio Romano, lo ricorda come uomo non privo di dottrina e d'ingegno, tuttavia aggiunge: «In un libro mss. di memorie intorno all'Università, che abbiamo sott'occhi, si legge di Mons. Camillo Peruschi che nec fuit bonus episcopus nec bonus rector. Con qual fondamento ciò si lasciasse scritto, io l'ignoro [2]».

Ora della cattiva fama acquistata dal Peruschi, e della quale il Renazzi non sapeva rendersi ragione, potranno fornirci anche troppo chiare notizie i documenti che qui pubblichiamo, nei quali ci vien fatto di trovare il rettore, i professori e gli scolari romani, spettatori ed attori di uno scandaloso dramma, del quale restano a testimonianza, nell'Archivio Criminale di Roma, le investigazioni processuali, fatte dal Tribunale del Governatore.

Crediamo opportuno di lasciar la parola agli attori medesimi :
e però prima udremo la deposizione di un professore:

Die 28 Februarii 1555. In nomine Domini nostri Jesu Christi ac si esserti etc, Ego frater Jo. Baptista Calderinus penitentiarius Sanii Petri /p. 142/ et publice professor Sapientiae in Gymnasio Sapientiae [3] de Urbe, rem gestam narrans super certas literas patentes P. D. Rectoris de Peruschis vulgari sermone loquendo, dico: che il lunedì innanzi Santo Antonio fui disturbato dal bidello del studio, quale corse in schola mia per tumulto che si sentiva di scholari.
Poi il mercore, essendo andato da mastro dominico auditore del Rev.do Sarantus veddi il studio aperto, dove iudicai che di novo se dovese legere et intrato ad cavallo dentro veddi alcuni scholari et giudicai se facesse la anatomia et un servitore del Reverendo rectore me disse: smontate che li è qui il rectore et io smontai per reverentia, quod agendum esset et trovai che lui era nella schola piccola a mano mancha che stipulava un istromento.
Cossi intratenendomi per aspettarlo veddi a mano dextra nella schola grande una maschera vestita et con l'insegnia del bidello et credevo certo che fosse il bidello perché volentiero fa delle ciocheze (sic) et approximatome ad quella schola veddi una grande moltitudine di scholari et maschere et io, amorevole de' scholari, credendo certissimo che volessero fare qualche piacevolezza honesta et contadinesca, perché erano vestiti da contadini et cossi entrai et loro me fumo intorno et io ascoltai certe loro altercationi villanesche paesane, ma io non intessi parolle, però venendomi quelle maschere intorno amorevolmente, io messi il mio capello in capo di una di quelle maschere, dicendo: esto doctor personatus: et cossi me accompagnarno fori della schola con applauso reverente.
Interim il signor Rectore venne fori della schola piccola et li dico come ero venuto, credendo che se havesse a tornare a legere et che io me raccomandava a Sua Signoria et volendome partire me disse: Restate de gratia et intrate assieme con meco acciò che questi pazzi non facciano qualche pazzia: urget enim presentia Turni.
Et videndome pregare dal mio Rectore ad fine di bene né may simile exempio inanzi, né mai a Padova doue sono stato sette anni né in questo studio doue io ho ben lecto da dodici anni in circa ho visto simile sporcizia.
Intrai, certissimamente aspettando una qualche piacevolezza civile et nel mezo del studio certo me recordo che il reverendo rectore disse ad alcune maschere, inanzi che intrassimo: Guardate, non fate qualche cosa indegna di noi et similia. Et li fu resposto da certe maschere, quali non so chi fossero: Vogliamo fare una bona cosa: et sentii una voce che disse: bonum, bonum, et eravamo molti con il Rectore.
Così posti a sedere il Rectore a mano dextra in su di una cathedra et io in una bancha proxima a /p. 143/ dextra et sopra di me un doctore (quale ha un occhio un poco vitiato, quale credo sia medico, chiamato messer Francesco Leopardo) io levo l'occhio alla maschera, che è in cathedra, et mentre io aspetto una lectione corrispondente alla altercatione villanesca, facta, come ho detto di sopra, ecco io sento uno stilo latino, al mio iudicio, terso et legista et ancora non me accorgeva della versutia, ma quando intesi non so che de pedagogis, al primo aspetto dissi fra me: questo mi ha avuto delle staffilate da qualche pedagogo.
Poy, scoprendosi il fetore, incominciammo fra noi, cioè il Rectore et messer Francesco Leopardo et io, dicendo: Andamo, andamo: et sentii che il Rectore disse: ho diavolo, questa cosa e troppo sporca et per quanto me ricordo, fece fare un pocho de pausa: ma le maschere, quali erano alla sinistra instando et il lectore seguitando nelle sporcitie, il Rectore se levò et noi insieme con tumulto di tutta la schola et io me guardava intorno a guisa di un gatto, che è alla saetta, guarda per qual pertuso può fugire.
Alla interrogatione che fa il R.mo Signor Gubernatore a me che il Rectore minatus fuerit con minaccie, dico che alhora non sentii minaccie né posso dire che sua signoria non minacciasse, perché io era intento al fugire, et li strepiti erano infiniti, come fanno li scholari. Ma poy che fummo fuora della schola io sentii il Rectore, come dicono li Lombardi, a brontolare et orgogliosamente voltarsi ad certe maschere, dolendosi di simili poltronerie et che se facesse descendere quelluy di cathedra et per quanto mi ricordo sub pena triremis. Et così io me partii.
Poy Sua Signoria un giorno me mandò a dimandare una matina et me disse che lui pativa disturbo per colpa di altri et che io volessi sottoscrivere questa patente, et cossi havendomela lecta simplici cursu et havendo narrato el scopo della cosa, che lui non sapeva per cosa certa tal poltroneria, sottoscrissi: ma astretto judicalmente ac si essem in presentia Jesu Christi judicis vivorum et mortuorum non recordatus quod intus minatus fuerit in schola, né che dicesse: Descende, descende.

Ma la deposizione del Calderini [4] che, lieto di essersela cavata felicemente, non voleva far danno ad altri, e perciò diceva di non aver riconosciuto alcuno, non ci lascia capire troppo apertamente di quale indole fosse la poltroneria, a cui l'incauto Rettore erasi lasciato indurre ad assistere.
A tal difetto rimedia largamente la deposizione di un altro professore, più oculato o meno prudente, Giustiniano Finetti da Montelupone, uomo che ai suoi giorni levò, come medico e scienziato, qualche grido di sé [5]:

/p. 144/

Reverendo Monsignore,
per sodisfare a V. S. R.ma di quanto mi rivelò sotto il giuramento che la mi ha dato et per non manchare alla verità et obbedirla, dico che tre o quattro giorni prima si facesse quella lettione nel studio, Alexandro Finetti mio figliuolo, di età di anni sedici in circa, il qual studia in legge, me disse simil parole in sustanza: Messere, nel studio si deve recitare una lettione carnevalesca scelerata dove si faran sceleranze et questioni.
Et io dimandai a mio figliuolo che materia conteneva questa oratione: me disse che era di sodomia et che tirava la legge ad reprobum sensum et me allegò certe leggi che parlavano de reprimendo hoc vitio.
Et de più mi disse che gli scolari havevan chiesto licenza al Rectore di recitar detta lettione, esponendo a S. S. R. che era carnevalesca de ano et de Priapo et che gli scolari dicevano ch'el Rettore gli haveva dato licenza etiam in scriptis, ch'io non lo so et il detto mio figliuolo me disse di più che tra gli scolari ch'erano di numero trenta over quaranta si faceva in certi luoghi congregatione dove si disputava che res sodomitice erant preferendole veneri naturali et reprobabant rem veneream cum feminis ac laudabant masturbationem et ch'egli se ci era retrovato una volta quasi forzato.
Et in quel medesmo giorno che fu recitata la sopradetta lettione, ritrovandomi con Monsig.r Rettore, con sei overo sette dottori ch'andavano a parlar all'Ill.mo di Napoli per conto del studio li dissi quanto sapevo et ho detto di sopra della sopradetta lettione, pregando S. S. R. volesse impedirla et parmi che egli non me rispondesse cosa alchuna.
Dopo che hebbi parlato col Cardinal di Napoli me ne andai et non me vi trovai, né io né mio figliuolo.
Questo è quanto io so et depongo per la verità.
Et in fede mi sono sottoscritto, questo dì 6 de febraro 1555

Ita per veritatem testificor et juro fuisse verum

ego JUSTINIANUS FlNETTUS [6].

La deposizione del Finetti, come pure quelle di altri professori, di studenti e del Bidello, che non stimiamo opportuno riferire, ci fanno accorti che il Rettore aveva dato sulle prime poca o punta importanza alla lezione oscena, annunciata dagli scolari, credendola una pazzia carnevalesca e nulla più. Avvedutosi, ma troppo tardi, della imprudenza commessa, né potendo rimediare allo scandalo, cercò di salvarsi dalle dannose conseguenze, che avrebbero potuto nascerne per lui, fìngendo di aver /p. 145/ completamente ignorato ciò che doveva avvenire.
Si fece perciò rilasciare da vari professori [7] un certificato, in cui costoro attestavano che egli non aveva potuto supporre quanto era avvenuto; che, veduti molti estranei e fra questi degli armati, nello Studio, aveva domandato di che si trattasse ad alcune maschere, le quali gli avevano risposto che erasi ottenuto il permesso dal Governatore e che non si sarebbero commessi scandali. Allora, anche allo scopo di reprimere colla propria presenza i possibili disordini, egli erasi recato ad assistere alla lezione, che inutilmente tentò d'interrompere quando capì di che si trattasse. Minacciato, avea dovuto uscire e invano aveva cercato il Bidello per far sgombrare lo Studio e notare i nomi dei presenti.

Invece, come dicevamo, altre deposizioni e in singoiar modo quella del Bidello [8], mostrano che il Peruschi erasi lasciato ingannare dagli scolari e aveva concesso di fare la sconcia lezione, intorno alla quale è necessario riportar qui le notizie che caviamo dalla deposizione del principale reo, il lettore della Orazione incriminata.

La decenza ci vieta di riprodurre per intiero la confessione di costui, un Raffaello Piocchetti studente di leggi, ma il sunto che ne daremo basterà a provare come la cosa fosse ben più grave di quanto apparisse dai documenti sin ora studiati.

Il Piocchetti, interrogato dal giudice, espose come la scolaresca fosse divisa in due schiere: i barbati e gli sbarbati: egli era il capo, il signore dei secondi. L'una e l'altra parte aveva il bargello e gli sbirri, scelti fra loro, e più volte si radunavano per /p. 146/ far dispute oscene, delle quali indica, uno per uno, gli argomenti.

Qualche tempo prima, in una di queste lubriche assemblee, nelle quali dalla teorica si passava alla pratica, la lezione era stata fatta da un Agostino Sereni che l'aveva - per quanto affermava - già pronunciata a Padova. Siccome era abitudine invalsa in varie università quella di far tale lezione nella vigilia di Sant'Antonio, coll'intervento dei dottori, così venuta la sua volta, il Piocchetti aveva domandato di poterla leggere e il Rettore, richiesto, aveva anzi concesso a chi dovea far le veci del bidello la mazza e le insegne di costui, appartenenti allo Studio.

Non eransi fatti inviti; ma sulla porta dello Studio era stato affisso un cartello con questa iscrizione:

Domini legtores et sgholares die mercurii hora xx ad legtionem domini favonii priapei adevnto.

Terminata la lettura, i presenti si erano al solito radunati per passare alla esercitazione pratica! Il Piocchetti, quale capo degli sbarbati, dava o non dava a suo arbitrio la licenza di eseguire le istruzioni ricevute.

Ne volete di più? Il cancelliere dell'Archivio Criminale qualificava ei medesimo la pederastia come un'arte: il protocollo in cui son raccolte le deposizioni da noi citate, porta infatti questo titolo: Lectio Artis pederasticae!

2

Tutte le intraprese investigazioni processuali finirono poi in nulla: erano compromessi professori e figli di professori ed il Papa giudicò opportuno di richiamare a sé, come era solito fare in altri casi, l'incarto del processo. Soltanto nel 1561, vale a dire quasi sette anni dopo, il Governatore trasmetteva al Cancelliere del suo Tribunale le carte perché fossero collocate in archivio.
Gli studenti non furono molestati: il Rettore restò in carica fino alla sua morte, avvenuta nel 1573. Né la sua riputazione, in fin dei conti, ebbe danno da questo scandaloso affare giacché, morto Giulio III, egli fu incaricato di tesserne l'elogio e più tardi venne eletto Vescovo d'Alatri [9].

/p. 147/ L'indulgenza e la trascuratezza di chi doveva raffrenarla, dovette favorire sempre più la corruttela degli studenti romani: né è probabile certo che pensasse a distoglierli dai loro viziosi costumi il Mureto, il quale successe a Cesareo di Cosenza nella cattedra di eloquenza all'Università romana, egli che era per le sue abitudini socratiche stato cacciato di Francia [10]!

E la depravazione dell'Università deve essersi estesa alle scuole regionali della città eterna, a quella specialmente di S. Eustachio e forse anche alle varie Accademie, sorte allora in Roma e di cui fa ricordo il Renazzi. Di ciò può esser prova un documento, che riguarda le Scuole del Collegio Romano, le quali, a detta del Renazzi, sotto il pontificato di Giulio III ebbero grande reputazione, perché vi si istruiva la gioventù «non solo nelle lettere, ma ancora nei buoni costumi».

Orbene, sugli ultimi del secolo XVI Gentile Paganelli, prefetto del cortile nel Collegio Romano, presentava al Governatore un memoriale, che si conserva autografo nell'Archivio di Stato in Roma, nel quale si leggono le seguenti lagnanze:

«Gerolamo Rota da S. Lupidio, d'anni venti in circa per via di giochi, colationi, premi e danari ha sviati moltissimi scholari del Collegio Romano, molti de' quali si sono ritirati e dati in preda al vitio, servendosene per mandarini per tirar altri incauti a' suoi disegni e dargli in mano a varii suoi, vantandosi poi d'haver dipendenti da suoi cenni i più belli ragazzi a dispetto dei Gesuiti».

/p. 148/ Riferiti vari esempi di fanciulli che narravano o a lui o ai maestri gli inganni del Rota, il supplicante espone le persecuzioni che egli stesso sofferse per opera del Rota quando costui si avvide che si volevano frapporre ostacoli ai suoi disegni.

Il Rota era pur esso uno scolaro del Collegio Romano, dal quale il ricorrente l'aveva espulso. Il memoriale termina così:

«Il Rota si finge esser protetto da varij per mostrare d'haver braccio e spaventare altri et vantandosi con questi di non haver paura dei Gesuiti né d'altri: ma è falsissimo conforme ci siamo informati etc.
Prego V. S. I. per le viscere di G. G. e per mantenere l'honestà nei giovani a rimediare efficacemente conforme la sua gran prudenza et la charità.
Tutto questo debito dell'officio mio dico d'haver saputo dagli istessi complici et altre persone degne di fede alla nostra Compagnia».

Ma nemmeno questa volta si presero misure per rimediare al male troppo inveterato. E intanto, l'Archivio Criminale di Roma, specchio dei vizi delle generazioni di ogni tempo, nel sec. XVI e nel XVII ribocca di denunzie per sodomia, di processi per attentati al pudore e ci fa sapere - cosa incredibile! - che in piazza Navona si esponevano seralmente in modo più o meno clandestino, de' ragazzi che venivano negoziati, come in un mercato.
E i bandi di Clemente VIII contro gli estranei che si introducevano nelle scuole del Collegio Romano e contro coloro che sui muri dipingevano figure oscene o scrivevan motti licenziosi restavano lettera morta.
L'importante era di impedire le manifestazioni di un pensiero troppo libero negli insegnanti: per questi delitti si accendevano anche i roghi, come avvenne per il Paleario.


A. Bertolotti.

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