Little Miss Sunshine

25 febbraio 2007

Little Miss Sunshine sta godendo un meritato successo di pubblico e di critica, culminato in un'imprevista nomination all'Oscar come miglior film. I registi Jonathan Dayton e Valerie Faris, esordienti, offrono una variazione efficace, e molto divertente, su tutta una serie di soggetti comuni ed abusati: l'ennesima famiglia disfunzionale, alle prese con l'ennesimo viaggio (quindi nell'ennesimo road movie), non produce solo deja vu. Lo stile è quello del film sospeso tra circuito di massa e film indipendente (insomma, un film-tipo da Sundance Film Festival), con una regia funzionale (e dai buoni tempi comici, che non è poco) e interpretazioni di ottimo livello, non solo da parte degli attori più esperti (come Alan Arkin, nei panni del nonno, o Greg Kinnear, già interprete del pittore gay in Qualcosa è cambiato), ma anche dei più giovani, Paul Dano (apprezzato protagonista di L.I.E.) e Abigail Breslin, solo undicenne ma con già una lunga carriera di partecipazioni televisive alle spalle.

La famiglia porta il nome di uno dei marchi di elettrodomestici più noti degli Stati Uniti (Hoover), ma i suoi componenti sono ovviamente quanto di meno "domestico" e integrato si possa immaginare: un nonno erotomane e cocainomane (perché "da giovani è stupido farsi, da vecchi è stupido non farsi"); un padre fissato con il successo economico e sociale, ma votato al fallimento (lo si capisce subito, prima ancora che il controcampo riveli quale scalcinato e fallimentare uditorio stia ascoltando la sua prima conferenza); un figlio adolescente sotto l'influsso di Nietzsche, che da nove mesi si rifiuta di parlare e odia tutti i suoi familiari.


Tra gli Hoover trova così facilmente posto anche lo zio Frank, l'immancabile personaggio gay, reduce da un tentativo di suicidio. Niente paura: lo stereotipo dell'omosessuale triste e suicida viene rapidamente esorcizzato, proprio dal contesto della famiglia, che è ovviamente tutto il contrario dell'ambiente in cui è consigliabile inserire un aspirante suicida ("Welcome to hell", è il messaggio con cui lo accoglie Dwayne), ma non ci sono alternative perché gli Hoover non si possono permettere l'assicurazione sanitaria necessaria a tenere Frank in ospedale. L'omosessualità di Frank non è quindi un problema per nessuno: la sorella è indifferente; il nonno gli dà i soldi per comprarsi una rivista porno; papà Hoover non vede di buon occhio la cosa, ma ha altro cui pensare; Dwayne odia tutti, senza distinzioni e ragioni specifiche, che è un modo (fin troppo freudiano) per voler bene a tutti; la piccola Olive trova che lo zio sia matto ad amare un ragazzo, ma ne è divertita.

Se la perla di saggezza fondamentale è affidata al nonno, quando spiega alla piccola Olive che il successo consiste nell'averci provato, allo zio Frank compete l'onore del messaggio numero due, quando si trova a dover consolare Dwayne citando Proust, nel tentativo di dare un senso alla sofferenza. Come egli stesso va dicendo incessantemente per tutto il film, Frank è "lo studioso numero uno di Proust negli Stati Uniti", o almeno lo era, prima di innamorarsi di un suo studente, che anziché ricambiare si era innamorato dello "studioso numero due di Proust degli Stati Uniti". L'amore, alle volte, conduce alla rinuncia alla dignità: così Frank aveva finito col farsi cacciare dall'università, perdendo una borsa di studio milionaria (andata al suo rivale, sul lavoro e in amore). Di qui il suicidio, per amore e delusione professionale, non per omosessualità, come prescrivevano le convenzioni del cinema omofobo solo pochi decenni fa.


Una delle scelte interessanti e condivisibili dei registi è quella di non lasciare intravedere troppo facili soluzioni ai percorsi dei personaggi: il film si conclude sui loro fallimenti, e anche se di fronte alla società in cui vivono il fallimento è garanzia di umanità e quindi in fondo un successo esistenziale, le loro promesse di ripresa e la loro capacità di far fronte alle frustrazioni sono tutte da verificare. Come pure il fatto che l'improvviso rinsavimento del padre basti a cancellare i traumi che la sua mentalità rampante vetero-reaganiana dovrà pur aver prodotto sulla piccola Olive: l'aspetto più inquietante del film è il silenzio con cui i familiari, soprattutto la moglie, assistono impietriti alle lezioni che egli impartisce a Olive. Anche se poi cercano in qualche modo di raddrizzarle. Quanto il nonno, da par suo, abbia lavorato in questo senso lo si vede nella sequenza finale del concorso, quando Olive svela la sua coreografia segreta, sbaragliando moralmente la concorrenza fatta di inquietanti bamboline disumanizzate. Dimostrando a tutte quanto sia bella la sua bruttezza. E confermando la convinzione di Adorno, secondo il quale il brutto rappresenta il massimo traguardo estetico concesso alla modernità, poiché dissacrando redime dalla convenzionalità pacificatrice e accomodante cui costringe l'industria culturale. Di fronte alle Barbie del concorso, metafora tra le più raccapriccianti della società americana, Olive, di suo bruttina e in più involgarita dalle lezioni del nonno, è un pezzo (amabilissimo) di controcultura.

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