Inizia bene questo film di un Verhoeven ancora nostrano e visionario: denso di misteri hitchcockiani, ossessionato con cura da un misticismo di reminiscenza bergmaniana, surreale nelle scene e nella fatalità del caso, oltreché nei densi e insolubili rimandi tra sogni e realtà, puntellato da un erotismo fuori dai cliché di genere. E soprattutto coerente nella costruzione, centrata sulle fobie misogine e di castrazione post edipica del protagonista omosessuale. Il limite del film sta invece nel suo simbolismo esasperato, rimarcato con tanta, insoluta continuità da rischiare a più riprese di deteriorare la suggestione in ripetizione, l’allusione in astrusità, la seduzione del caso in una struttura di rispondenze troppo puntuali e troppo sistematiche, con il rischio di compromettere l’efficacia dell’ambiguità della femme fatale nonché della realtà della sua fatalità (vera vampira o donna innocente e sfortunata ingiustamente perseguita dall’immaginazione troppo parziale di uno scrittore che gioca a esibire un libertinismo intellettuale e comportamentale che in realtà cela forti inibizioni religiose e sociali?). La parte migliore rimane la prima, diretta con mano disinvolta da un regista allora promettente.