La scelta più efficace della regista è quella di condurre tutta la narrazione su un equilibrio delicato e ben conservato di umorismo e dramma, denunciando volti risaputi della società indiana (la sottomissione della donna, la religiosità soffocante, i matrimoni combinati) attraverso l’accostamento di volti inediti (almeno per lo spettatore occidentale) e moderni che mettono di per sé in discussione il rigore della struttura sociale. Così il figlio più religioso è mostrato come un fanatico egoista e ipocrita, mentre suo fratello è molto più disinibito, adora i film di kung fu di Hong Kong, ha un’amante orientale, si sposa solo per compiacere il fratello, non ha nessun interesse per la religione e affitta in segreto film pornografici. Il contrasto tra culture, visioni differenti, realtà e utopia si manifesta nelle forme più acute nel lesbismo delle due protagoniste, e nelle forme più comiche nel personaggio del servitore, che quando rimane solo con la vecchia matriarca paralitica e muta, anziché mostrarle film religiosi (come ordinato dalla famiglia) le fa vedere film pornografici mentre si masturba. In questo contesto di soffocante arretratezza opposta a spinte libertarie che, pur elementari, acquistano inevitabilmente un connotato anarchico ed eversivo, si inserisce l’amore lesbico il quale, una volta scoperto, fa ovviamente saltare tutti i precari equilibri su cui si basava il quieto vivere di questa famiglia tipo, che dovrebbe rappresentare in qualche modo un’India in miniatura. E’ proprio a partire da questo punto, da quando cioè i segreti vengono allo scoperto, che il film diventa più didascalico, prevedibile e melodrammatico, perdendo l’equilibrio che rendeva interessante e piacevole la prima parte. Il finale sa troppo di tesi dimostrata, e non ce n’era bisogno, perché il messaggio era arrivato, chiaro e forte, già prima.