La tarantola dal ventre nero

15 settembre 2012

Nonostante qualche stramazzo della trama e nonostante Giannini sia espressivo quanto la fronte della Kidman paralizzata dal botulino, un film di discreta fattura, anche se un po’ troppo dipendente dal modello additato allora da Dario Argento. Da L'uccello dalle piume di cristallo, in particolare, Cavara riprende un certo gusto per le macchiette e l’assassino psicopatico, laddove il giallo all’italiana di solito preferisce motivare le catene di delitti con esigenze più tradizionali, ad esempio entrare in possesso di una lauta eredità.

Qui invece tutto ruota intorno a un serial killer impotente che trucida le donne che lo eccitano paralizzandole prima con un ago infilato nel collo, come pare faccia un tipo particolare di vespa con la tarantola del titolo (ovviamente non manca l’esperto di turno che spiega tutto quello che c’è da sapere).

L’assassino in questione è legato a un centro estetico frequentato da sole donne, fra le quali sceglie le sue vittime. Due soli sono gli uomini di servizio: un massaggiatore e un cameriere (Ginetto), resi innocui rispetto alla clientela dal fatto di essere rispettivamente cieco e omosessuale. Ovviamente Ginetto è effeminato e vagamente lezioso nella parlata, quanto basta perché lo spettatore capisca senza sforzo. L’unico a non capire è proprio Giannini, che del resto passa tutto il film a chiedersi se sia davvero tagliato per fare il poliziotto (mai che si chieda se sia meglio fare altro che l’attore). Ora, quando interroga Ginetto, abbiamo la conferma che i suoi dubbi non sono infondati: la prima cosa che gli chiede, anzi l’unica, è infatti se sia sposato («Per carità! No!», risponde lui). Col cieco fa anche di peggio: gli chiede di togliersi gli occhiali da sole... Con un fiuto così non sorprende che tutte le donne che teme vengano uccise… vengono effettivamente uccise.

Tra l’altro, Ginetto si diverte a deridere e spregiare le belle donne che frequentano il centro, mentre si rende complice di quelle brutte e le consola. Ma i suoi sono piccoli scherzi innocenti, anche se trasudano un certo acidume misogino.

Meno innocente è ovviamente la direttrice del centro, Laura. Dico ovviamente perché è lesbica, e le esuli di Saffo di questi film non sono mai raccomandabili né amichevoli. Tanto bella quanto gelida, Laura è una mezza criminale: poco confronto all’omicida che circola nel film, ma comunque gestisce un’attività parallela di ricatti ai danni delle sue clienti ninfomani sufficiente a non smentire i luoghi comuni. Ad aiutarla è la sua giovane dipendente-amante, che ovviamente nell’unica scena che hanno insieme schiaffeggia e minaccia anziché consolarla e cercare di comprendere perché sia terrorizzata all’idea di finire ammazzata.

Insomma, due ritrattini pienamente conformi agli stereotipi circolanti in quegli anni nel cinema di genere.

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