recensione diGianni Rossi Barilli
Dorian
La scrittura colta e scoppiettante è l'aspetto più riuscito del libro, soprattutto quando i discorsi tra virgolette sono quelle di Lord Henry Wotton, mentore di Dorian Gray che inizia il suo pupillo alle gioie della tossicodipendenza e del sesso sfrenato. Questo bizzarro signore, occupato solo nel fare di sé un monumento ai propri vizi e nel produrre chiacchiere argute, è un alter ego di Wilde, capitato per errore nel ventesimo secolo per deliziare le orecchie altrui col suo smaltato vaniloquio. Peccato che le altre figure chiave della vicenda non siano alla sua altezza. Dorian Gray e il suo amante-vittima Basil Hallward, che riproduce l'immagine del corpo giovane di Dorian in un'installazione video sostitutiva del proverbiale ritratto, convincono meno e fanno pensare che se il romanzo ha un intento di satira sociale non raggiunge del tutto l'obiettivo perché non graffia a sufficienza. Anche se qualche quadretto di vita sociale londinese (o newyorchese) colpisce nel segno.
Dorian, nella naturale immoralità che lo trasforma in untore dei nostri giorni, appare meccanico. È preda di un mortale narcisismo privo di sfumature e rende piuttosto difficile comprendere il fascino che il personaggio dovrebbe in teoria esercitare sugli altri. Tutto si gioca su una perversa bellezza che in definitiva chi legge deve dare ampiamente per scontata. Hallward, invece, con la sua ansia di riscatto morale, sembra più la parodia di certe eroine da romanzo del sette-ottocento che non quella di qualche grande artista contemporaneo morto di Aids proprio come Hallward.