Sul matrimonio

5 novembre 2004

Letto nella riedizione SE, 1999.

Scritto nel 1925 da un Thomas Mann cinquantenne per un libro-inchiesta sul matrimonio, questo saggio tratta in effetti più di omosessualità che di matrimonio. Quanto meno, si può dire che l'autore prende il suo soggetto un po' alla larga.


Nel clima di fermento culturale della Germania di Weimar, Mann registra una certa mascolinizzazione delle donne (benché si affretti a precisare che «ovunque, l'elemento prettamente femmineo, vale a dire della donna in quanto graziosa gattina, è ancora ben presente e lo si può considerare eterno», p.17) e una parallela perdita di importanza, presso i giovani, di un «particolare concetto di virilità - galante, "gallistico", rozzo, tronfio». Tutto ciò da un lato segna anche fisicamente i giovani uomini, che «hanno deposto ogni atteggiamento marziale» a favore di uno «donnescamente morbido e tornito», e preferiscono radersi e inseguire una «meno specifica bellezza» (pp. 18-19).

Insomma i confini dei generi sembrano sfumare a favore di una «umanità comune». Ciò, in linea con «la scoperta psicanalitica dell'originaria e naturale bisessualità umana» (p. 20), porta a una maggiore dinisibizione nei confronti del sesso, che Mann elogia, ma anche a una maggiore tolleranza - ma il discorso è sempre limitato ai giovani - per «il fenomeno omosessuale».


Questa nota di costume dall'apparenza leggera e tollerante non deve trarre in inganno. Il discorso di Mann, infatti, ripiega poi su posizioni tristemente in linea con idee e pregiudizi squisitamente ottocenteschi.

Il discorso di Mann è estremamente lineare: i giovani aspirano al bello, che è un tratto peculiarmente giovanile e femminile, ed è ciò che caratterizza anche l'omosessuale, con il suo «estetismo erotico» (p. 22) che può essere tollerato, ma che è estraneo all'«imperativo vitale» e moralmente riprovevole, intrinsecamente incapace com'è di rispettare valori quali la responsabilità e la fedeltà.


Se da un lato l'associazione di omosessualità e spiccato gusto estetico è un cliché che discende dal decadentismo e si deteriora in luogo comune, l'idea che la vita sia associabile solo al matrimonio e alla eterosessualità, mentre l'omosessualità coincida con l'individualismo (p. 27), è un'idea diffusa nell'Ottocento anche dalla medicina (quello dell'individualismo è un argomento usato spesso anche contro la masturbazione, considerata madre di ogni malattia, omosessualità compresa). La borghesia del secolo XIX guardava con sospetto l'individualismo (e l'omosessualità che vi era associata) in quanto fonte possibile di disaffezione per lo stato, per la società, e addirittura possibile fonte di anarchia e di complotti eversivi.

Mann, senza mezzi termini, associa individualismo, omosessualità e morte (p. 27) addirittura. Perché se l'omosessualità non può creare vita (ma solo, al limite, opere d'arte...), allora deve logicamente portare alla morte.

E lo dice citando con orgoglio Morte a Venezia. Il che può stupire qualcuno, perché Morte a Venezia è diventato un classico della letteratura omosessuale. Ma basta rileggerlo con un po' di attenzione per scorgervi, neanche troppo tra le righe, messe in pratica proprio queste convinzioni. Non solo per il fatto, ovvio, che Aschenbach muore, ma anche nella figura stessa di Tadzio, che non è solo l'incarnazione del bello assoluto, ma anche una prefigurazione della morte, destinato pertanto, ci dice Aschenabch stesso, a morire giovane.


Insomma, quando le velate si mettono a teorizzare, per conciliare matrimonio e turbamenti verso i giovincelli (che Mann confessava solo a se stesso nei diari), si salvi chi può...

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