recensione di Mauro Giori
A doppia faccia
Sebbene Freda stia spesso un gradino sopra i registi che hanno arricchito il cinema di genere italiano degli anni Sessanta e Settanta, A doppia faccia è tutto fuorché memorabile. Non si tratta nemmeno di un vero e proprio giallo all’italiana, che nel 1969 stava ancora cercando una sua fisionomia, ma alcuni ingredienti sono già ben individuati, in particolare uno sfruttamento puerile della rivoluzione sessuale. Lo sfondo della swinging London serve infatti solo per giustificare narrativamente qualche timida trasgressione erotica, a cominciare dal fatto che l’innamoratissimo Klaus Kinski scopre subito all’inizio che la moglie preferisce le donne (la trova a strusciarsi nella vasca da bagno con l’amica del cuore).
Nel rappresentare il lesbismo, Freda non va oltre i luoghi comuni: le lesbiche sono o borghesi ricchissime e annoiate o ballerine di teatri equivoci (in ogni caso algide con il mondo e solo poco meno fra di loro), o ancora prostitute che non si negano a nulla. Kinski può infatti convincersi che la moglie sia ancora viva perché la vede (o crede di vederla) in un film porno di quelli che allora circolavano ancora in forma clandestina. Un film nel quale la donna ovviamente compare avvinghiata a un’altra donna. E per giustificare il fatto che l'eroe arrivi a vedere un film del genere lo si fa finire in una festicciola a base di droga, musica rock e sesso, e cioè nel mezzo della gioventù liberata come poteva immaginarla la borghesia italiana dell’epoca.
Per prudenza, tutto è quindi ambientato in terra nordica, dove il nostro cinema di allora raccontava ci fossero comuni orgiastiche, così come negli anni Trenta raccontava che in Ungheria si potesse divorziare.
Abbastanza naïf da essere talora divertente, sarebbe bastato davvero poco per scriverlo meglio.