Littérature et homosexualité

29 marzo 2005

Il numero 426 del dicembre 2003 della rivista Magazine littéraire contiene un Dossier di quarantadue pagine dedicato al tema «Littérature et homosexualité». Il Dossier, ricco, agile e bene illustrato, comprende dieci articoli o gruppi di articoli relativi a diverse epoche storiche, firmati da illustri specialisti di ciascun settore, nonché da scrittori omosessuali, i quali riescono con successo a esprimere e promuovere idee, a informare o testimoniare, a realizzare sintesi storiche o critiche di pregio nel breve spazio di un articolo concepito per una rivista non specialistica. Lo ha curato David Rabouin, il quale vi ha premesso una conversazione con Didier Eribon, e lo ha completato con una bibliografia delle ultime novità apparse in lingua francese. La conversazione illustra il tema generale del Dossier e la tesi su cui esso è costruito: la letteratura occupa un ruolo di primo piano nella storia di ciò che oggi si chiama cultura gay e lesbica, sia in quanto partecipa direttamente alla costituzione delle identità gay e lesbica, sia in quanto queste identità investono direttamente la letteratura e orientano l'esplorazione di nuove forme di scrittura, sia in quanto la letteratura è stata in ogni epoca un luogo privilegiato della rappresentazione (spesso critica) dell'omosessualità. Di qui la struttura del Dossier, che è ordinato in senso storico dalla Grecia classica alla contemporaneità (naturalmente con punti vuoti e assenze) e, per quest'ultima, si articola rispetto ad alcuni ambiti tematici particolarmente significativi. Questa struttura, unita alla preoccupazione, tipica della cultura francese, di promuovere sintesi dotate di un certo respiro teorico, e il calibro degli autori, fanno sì che ciascun articolo si qualifichi anche come un intervento personale rispetto a ciascun settore di studi.


L'articolo d'apertura («L'homophilie grecque», di Claude Calame) approfondisce il significato dei legami erotici che, in Grecia antica, si danno sia tra adolescenti, sia tra un adulto e un adolescente, dello stesso sesso, e che l'A. propone di designare con il termine omofilia. La relazione di omofilia presuppone un contesto ritualizzato, il tiaso (la forma moderna del quale sarebbe il cenacolo), oppure da un'istituzione privata socialmente riconosciuta quale il simposio (della cui forma moderna siamo in cerca), e ha un forte valore di transizione iniziatica, cioè di esperienza formatrice della sessualità e dell'io adulto, che, grazie alla relazione omoerotica, segna e accompagna la trasformazione fisiologica, psicologica e di status dell'adolescente, maschio e femmina. Questa relazione è caratterizzata da una asimmetria strutturale, che si presenta a vari livelli, e che, d'altra parte, proprio il rapporto erotico ha lo scopo di contenere. Questo tipo di rapporti forniscono, anche se Calame non lo rileva, un retroterra storico e una forte carica di identità a rapporti e relazioni che la modernità e la contemporaneità sottacciono, o non comprendono. Da notare anche che l'aspetto asimmetrico, legato alla differenza di età che caratterizza la relazione tra adulto e giovane, riconduce a un problema che, per esempio, Foucault considerava centrale in vista dell'invenzione, oggi, di un nuovo codice delle relazioni omosessuali e della creazione di un modo di vita gay che mettano in crisi i codici normativi istituzionalizzati o riconosciuti.

L'articolo di Florence Dupont («L'Eros romain») sostiene la tesi secondo cui a Roma la pederastia è presente solo nei testi letterari, laddove nella pratica l'erotismo pedagogico coltivato nelle palestre e nei ginnasi greci è sparito; le stesse lettere sarebbero una testimonianza di tipo autoreferenziale, e, in generale, poesia e letteratura sarebbero il solo spazio nel quale i Romani possono vivere i loro «fantasmi pederastici». È utile riflettere su questo articolo, che, anche se contiene elementi di verità, non evita un vizio originario (che è possibile osservare, peraltro, anche in vari studi relativi a tempi molto più vicini ai nostri), e che si potrebbe riassumere con questa formula: impropria deduzione della realtà storica da un testo letterario. Il testo letterario è innegabilmente un documento (e di primaria importanza) della ricerca storica, ma a patto che non sia previamente reinterpretato al lume di una teoria letteraria, specie se molto impegnativa, perché, altrimenti, il rischio è che si deduca da esso non più la storia, o meglio il frammento di storia che ciascun testo permette di illuminare o stabilire, ma lo schema di intellegibilità che si è previamente utilizzato (e che solo permette conclusioni tanto generali e universali quanto altisonanti). Così, nell'interpretazione dell'A., l'autoreferenzialità, la dimensione fantasmatica dei riferimenti omoerotici dei testi latini, sembra esterna ai documenti e largamente presupposta. Né è escluso che una sensibilità gay permetta di leggere, ad esempio, in molti carmi di Catullo qualcos'altro che «fantasmi».

Louis-Georges Tin si interroga nel suo articolo («Une Renaissance homosexuelle?») sulla tesi secondo cui il Rinascimento segnerebbe una sorta di età aurea per la cultura omosessuale, giungendo a conclusioni equilibrate e condivisibili: questa tesi deve essere debitamente sfumata, e richiede molte riserve, anche per le culture per le quali si rivela, alla luce delle testimonianze e delle opere letterarie, parzialmente accettabile, vale a dire per l'Italia e, in misura molto minore, per l'Inghilterra. Per la cultura francese, nella quale simili testimonianze e opere mancano quasi del tutto, essa è senz'altro falsa, e per la Francia sarebbe anzi più corretto parlare di un Rinascimento omofobo: il desiderio omosessuale è non solo censurato, come d'abitudine, nella traduzione di opere greche o nell'evocazione della grecità, ma non trova quasi mai espressione nella letteratura, dove, semmai, giunge a esprimersi sul versante femminile, posto anche che l'amore tra donne è considerato meno perturbante (ed è anche meno preso sul serio).

L'articolo di Anne F. Garréta ha per oggetto «Le désir libertin au XVIIIe siècle» e propone una riflessione sintetica e intelligente sull'età dei Lumi, in particolare su Rousseau e Sade. La conclusione dell'A. è che parlare del sesso in quest'epoca significa sempre parlare di qualcosa di più che il sesso, e che il discorso letterario e quello prescrittivo sono sempre commisti, così come lo sono piacere e potere; la critica sociale e politica del dispotismo passa attraverso la denuncia (o il cliché) della dissolutezza dei religiosi (Voltaire identifica la chiesa e l'abominio sodomitico). Romanzo, letteratura clandestina, letteratura prescrittiva presentano la stessa ossessione: ruolo inquisitore dello sguardo, compulsione a far parlare i corpi, narrazione delle loro inclinazioni licenziose. Va osservato che questa rapida presentazione è molto utile per cogliere, in prospettiva, alcuni presupposti del discorso storico (e del retroterra di letture francesi) di Foucault. E proprio in riferimento a Foucault, coglie nel segno l'osservazione dell'A., secondo la quale una semplificazione abusiva della tesi de La Volonté de savoir vorrebbe che prima dell'invenzione della «sessualità» le società moderne non avrebbero conosciuto altro che «atti» contro natura, e non delle identità costituite. Ora, argomenta l'A., il fatto che l'omosessualità sia una invenzione concettuale della fine del XIX secolo non significa che gli individui «nati troppo presto» per rientrare in questa categoria si siano contentati, erraticamente, di dedicarsi ad «atti» sottoposti a proibizione. Inoltre, l'articolazione del discorso della legge non esaurisce né cirscoscrive la totalità del significato delle pratiche di coloro che esso assoggetta. Preziosa è anche la conclusione: «Se, con il termine sodomia, lo Stato e la Chiesa intendono ogni atto che contravviene alla finalità riproduttiva dell'uso dei corpi, la letteratura dell'epoca lascia discernere un erotismo che si articola non semplicemente in termini di atti o di finalità riproduttive, ma in termini di inclinazioni, di eresia professata, di gusto soggettivo».


Nicole G. Albert firma un articolo intitolato «Amours décadentes» (corredato tra l'altro da una bellissima fotografia di Colette in compagnia della Marchesa de Morny, alias Missy), in cui il lesbismo occupa un posto importante. L'A. cerca di enucleare i tratti tipici dell'amore omosessuale nel decadentismo, in cui esso acquisisce un livello di espressione molto forte, e l'omosessuale entra nel campo del «sovversivo»: esso/a rappresenta «la morte dei sessi, cioè il fallimento del dimorfismo, il divorzio consumato dei sessi già predetto da Vigny, e la fine della procreazione»; nello stesso tempo, l'omosessualità si coniuga con una certa aristocrazia dello spirito, in cui l'arte occupa un posto importante. Notevoli e diversificati sono i modelli della lesbica («chercheuse d'infini» per Baudelaire, che la trasforma in eroina prometeica), colei che infrange le leggi sociali, morali e divine della riproduzione, colei che rinuncia alla famiglia, mentre nasce la figura, letteraria e reale, del dandy, che la stampa popolare prende regolarmente di mira (Jean Lorrain, Maurice Rostand, Oscar Wilde, Marcel Proust, Pierre Loti): ma è anche l'epoca di processi, l'epoca in cui si pronunciano condanne, per mezzo della letteratura, dell'omosessualità (il cattolico François Mauriac deplora che «molti di questi malati che non si conoscevano oggi si conoscano, grazie a Gide e a Proust»; ma Gérard Bauer riconosce che Proust, grazie al suo immenso talento, ha concorso a far nascere una «omosessualità vittoriosa e libera»). L'amalgama dei sessi (e quindi termini quali «hors-nature, insexués, demi-sexes, invertis, sans-sexe, androgynes, fin de sexes»), che è uno dei principali elementi del programma decadentista, trova nell'omosessuale la sua espressione perfetta. L'omosessuale è, secondo l'A., in certa misura «una creazione del decadentismo: tuttavia gli sopravviverà»; e, letterariamente, ne segue le tracce dai romanzi e dalla poesia di fine Ottocento fino al travestito «Divine» di Notre-dame des fleurs di Genet (1946).

Questo articolo è corredato da due articoli più brevi, che sono anche due pezzi letterari, posti sotto la rubrica «Opere incrociate», opera di due scrittori omosessuali (a tutti/e gli scrittori/le scrittrici gay e lesbiche Magazine littéraire ha domandato quali siano gli autori e le opere che li hanno maggiormente segnati nella loro riflessione sull'omosessualità): l'uno, di Hugo Marsan (autore di Le Désir fantôme, 1992; Place de bonheur, 2002; La Gare des faux départs, 2002), intitolato «Proust, les jeux du désir et du hasard», l'altro, di Jean-Noël Pancrazi (autore di Tout est passé si vite, 2003, Prix de l'Académie française), dedicato a «Jean Genet, une trace phosphorescente». Sono due articoli bellissimi, generosi, riconoscenti, positivi. Marsan descrive il suo incontro con Proust, spiega come l'emergenza di personaggi omosessuali nei personaggi di primo piano della Recherche, tutto ciò che Proust ha detto e scritto sulla vita e sull'amore, abbiano contribuito a formare la sua individualità, la sua identità di scrittore: il suo pezzo è anche un conciso ed essenziale resoconto della forza dell'omosessualità della e nella Recherche, dei suoi effetti letterari, biografici, privati. Pancrazi descrive Genet, quale l'ha realmente conosciuto nei bar di Pigalle («ci aiutava a essere, a sentirci liberi»), mescolando la sua figura con quella di Querelle, cui sono dedicate lunghe, parlanti citazioni, e conclude dichiarando la sua ammirazione per lo stile «di visionario esatto, disincantato» di Genet, «per la sua immensa libertà narrativa, le sue derive incantate, la sua insolenza fastosa, la sua radicalità, la sua umiltà di sempre».


La sezione successiva, dedicata a lesbismo e letteratura, si apre con un articolo della critica e scrittrice Laure Murat intitolato «Un siècle de littérature lesbienne». La letteratura lesbica è una letteratura numericamente marginale («quando si son lette le poesie di Saffo, Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall, le poesie di Sylvia Plath e di Anaïs Nin, La bastarda di Violette Leduc, si è letto tutto», dichiarava Monique Wittig), una letteratura di scissione, che trova una nuova energia all'inizio del Novecento, nel cuore di quella Belle Epoque che vede l'emergenza di alcune moderne Saffo decise ad assumersi letterariamente la loro propria storia e a cantare il loro desiderio in un universo dal quale gli uomini sono sradicati: dalla poetessa Renée Vivien (scrittrice parigina di origine inglese, morta a 32 anni) e da Natalie Clifford Barney, compagna della Vivien, fino a Liane de Pougy, Remy de Gourmant, Djuna Barnes, Lucie Delarue-Mardrus e fino alla grandissima Colette, bisessuale. Secondo Monique Wittig, Proust con la Recherche (1913-1927) e Djuna Barnes con Le Bois de la nuit (1936), hanno fatto, per primi, di «omosessuale» e «femminile» «l'asse di categorizzazione a partire dal quale universalizzare»; l'emancipazione, prodotta proprio da Proust, di una letteratura lesbica, data dal momento in cui l'omosessualità maschile determina una costruzione formale organica che dirige e produce una nuova visione del mondo. Ma la Seconda Guerra mondiale spezza questo slancio (già frenato a partire dagli anni Trenta), e bisognerà aspettare la grande meteora di Violette Leduc(le prime centocinquanta pagine di Ravages, 1955, saranno censurate da Gallimard), che con un realismo lirico senza precedenti impone una nuova immagine, carnale, fisica, emotiva, della lesbica (le pagine soppresse da Gallimard sono state parzialmente pubblicate nel 1966, con il titolo Thérèse et Isabelle, ma solo nel 2000 l'editore ristabilirà nella sua coerenza originaria questo testo esplosivo, audace, nuovo). Dopo di lei è Monique Wittig (Le Corps lesbien, 1973) che imprime una svolta decisiva alla letteratura lesbica, tentando, anche attraverso un particolare uso della lingua, di «rendere universale il punto di vista minoritario», e, nello stesso tempo, spezzati i ponti con la cultura maschile, di scrivere testi esclusivamente per donne. Oggi è Anne F. Garréta (Sphinx, 1986, Pas un jour, 2002) che può vantarsi di essere l'erede spirituale della Wittig, con il suo tentativo di piegare ancora oltre i limiti della lingua nel lavoro di genere.

Anche questo articolo è seguito da tre pezzi letterari, affidati a Maud Tabachnik, che scrive su «Colette, écrivain de l'Amour», a Jacqueline Harpman, il cui contributo ha per tema «Virginia Woolf, la vérité d'Orlando», e a Nina Bouraoui, che tratta di «Violette Leduc, l'écriture comme pratique amoureuse»). La Tabachnik (autrice di Mauvais frère, 2002, e di La Honte leur appartient, 2002), si mostra convinta che appartenere a una minoranza sessuale muti il proprio modo di vedere la vita e di descriverla, e spiega come la grandezza di Colette risieda nella sua capacità di descrivere le emozioni più semplici, e l'amore, mercè una scrittura densamente carnale. La Harpman (autrice di Orlanda, 1996, e di La Dormition des amants, 2002), offre un'esegesi raffinata del grande romanzo di Virginia Woolf, Orlando, ed esplora i significati simbolici dei tre sonni di Orlando in un pezzo intelligente e ricco, in cui la personalità della grande scrittrice inglese è sempre tenuta presente. La Bouraoui (autrice di Le Jour du séisme, 1999, Garçon manqué, 2000, La Vie heureuse, 2002), scrive un pezzo innamorato di Violette Leduc, della sua scrittura e della sua universalità, che unisce uomo e donna, sostenendo che, al fondo di questa scrittura, non c'è l'omosessualità, posto che la letteratura cancella l'identità sessuale, ma lo slancio della sessualità in generale («un grande autore ha tutti i sessi, un grande autore non ha alcun sesso: [...] è inclassificabile»).


I tre gruppi di articoli che seguono riguardano più specificamente i gay, la loro biografia e il loro modo di vita, rappresentati dalla letteratura. Il primo articolo, «L'aveu homosexuel», è di Jean-Louis Jeannelle e riguarda, appunto, il grande tema (ed evento) della confessione/dichiarazione di essere omosessuale. L'A. parte da Proust e Gide, si sofferma su Roger Martin du Gard (autore del Lieutenant-Colonel de Maumort), Marguerite Yourcenar (Alexis) Pierre Jean Jouve, Yves Navarre, Jean Cocteau, Daniel Guérin, fino ad arrivare a Barthes et Genet e, infine, a Hervé Guibert, con il quale la confessione dell'omosessualità si unisce a qualcosa di interamente nuovo: la rivelazione della malattia. Molto importanti sono anche in questa sezione gli articoli degli scrittori. Quello di Dominique Fernandez (autore di L'Amour qui ose dire son nom: Art et Homosexualité, 2001, oltre che di Les Enfants de Gogol e L'Aube) ha per oggetto «Pierre Herbart, écrire le désir dans les années cinquante»; quello di Christian Giudicelli (autore di Parloir, 2002, e di Karamel, 2002), si interroga su «François Augiéras, le nomade inspiré»; quello di René de Ceccatty (scrittore e critico, cui si deve la traduzione francese delle Notti romane di Pier Paolo Pasolini), si intitola «Pasolini, le désir comme cérémonial». Ognuno di questi articoli è da leggere attentamente, come un contributo a sé, che sarebbe improprio cercare di riassumere: ma l'idea comune che si sprigiona da essi, e che spiega la grande forza della letteratura e dello stesso movimento omosessuale in Francia, è che tutte le grandi forme di espressione della soggettività omosessuale siano riuscite a entrare in circuito e abbiano ricevuto attenzione, evitando il filtro di posizioni ideologiche che fungano o da incoraggiamento o da veto, e che a questa diversità di espressione corrispondono, negli scrittori che ne sono stati influenzati, opzioni diverse e differenziate quanto, ad esempio, al problema del nesso tra letteratura e desiderio omosessuale (su di esso si veda soprattutto de Ceccatty, illuminante anche nel suo davvero laico accoglimento di Pasolini, che non si lascia intralciare dal cliché del senso di colpa di matrice cristiana e cattolica dello scrittore italiano, ma lo interpreta come sforzo e difficoltà a scongiurare l'animalità del desiderio e a sublimarla in una sorta di vitalità del mondo e in una percezione poetica dell'universo).

Il secondo articolo («La littérature du sida») è opera di David Caron ed è dedicato alla letteratura dell'aids, che è divenuta ormai uno dei più importanti sotto-generi della letteratura gay e, nei paesi in cui questa s'insegna, trova spazio all'interno di qualunque sua panorama critico. Essa assume caratteri diversi a seconda delle culture in cui si esprime: essenzialmente collettiva e politica negli USA, ove i primi testi appaiono intorno al 1985, e non a caso sono affidati al teatro, che è espressione anche di una vera e consolidata comunità gay, in Francia (il paese occidentale maggiormente toccato dall'aids dopo gli USA) la letteratura relativa è stata particolarmente ricca e influente, ma ha impiegato più tempo per trovare un pubblico, che non era emanazione di una identificazione sociale comunitaria, e dove per molti lettori, i quali scoprivano contemporaneamente l'omosessualità e l'aids, essa veicolava un forte «senso di universalità», dovuto anche alla percezione dell'ampiezza del fenomeno e della sua attualità. L'A. percorre una ricca messe di testi, da alcuni molto belli ma oggi già dimenticati (Bertrand Duquénelle, L'Aztèque, 1993; Gilles Barbedette, Mémoires d'un jeune homme devenu vieux, 1993), al celebre Les Nuits fauves di Cyril Collard (1989) e a L'Accompagnement di René de Ceccatty (1994), per soffermarsi in particolare su Hervé Guibert (A l'ami qui ne m'a pas sauvé la vie, 1990; Le Protocole compassionel, 1991) e Guillaume Dustan (Je sors ce soir, 1997), presso i quali predomina il modello del racconto autobiografico, con aspetti fortemente impudichi, che non esprimono, peraltro, narcisimo, ma una critica dei meccanismi di esclusione e oppressione che sono al cuore della divisione tra pubblico e privato. E in molti di questi autori, in particolare in Dustan, l'aids cessa di diventare segno della morte, ma è punto di partenza di una riflessione sul proprio rapporto con il mondo, mentre in generale si parla sempre più della vita-con: con la sieropositività, con i trattamenti, con gli altri. Philippe Besson (autore di En l'absence des hommes, 2000; Son frère, 2001; L'Arrière-saison, 2002; Un garçon d'Italie, 2003) scrive un pezzo intitolato «Hervé Guibert, le goût pour le corps». Besson descrive l'impatto enorme esercitato su di lui, diciannovenne, dalla scrittura di Guibert, cui riserva, per eccezione, la designazione di «scrittore omosessuale» (laddove, in generale, dice Besson, «questa espressione mi fa' orrore, tanto è riduttiva, caricaturale, il più delle volte del tutto assurda»): di qui riflessioni sul nodo vita/omosessualità/opera e un giudizio su Le Mausolée des amants, superbo canto funebre di Guibert pubblicato dieci anni dopo la di lui morte.

Molto interessante, in questo interessante trittico, è anche l'articolo «Chroniques de la vie sexuelle», di Hugues Marchal, dedicato in particolare ad autori quali Renaud Camus, Guillaume Dustan e Erik Rémès, nelle cui opere è centrale la descrizione di pratiche sessuali, spesso vissute al di fuori dei modelli più consueti o delle norme dominanti, nello stile di vere e proprie biografie sessuali, le quali compensano, per concentrazione, il deficit generale della rappresentazione omosessuale che ha luogo in una società (ancora una volta la letteratura dialettizza con la realtà storica) in cui non solo l'omosessuale ma gli atti omosessuali restano per lo più invisibili o stigmatizzati. In questa letteratura si giunge al trash, e questi autori non si pongono il problema che Bourdieu considera centrale nella costruzione di ogni comunità, quello di essere in qualche modo un porta-parola legittimo che crea un gruppo facendosi incarnazione della parola di quel gruppo; tuttavia, nota l'A., dando dell'omosessualità una rappresentazione dichiaratamente parziale, paradossalmente (ma forse non troppo) la proteggono nel suo insieme, sfuggendo alle nuove norme di rispettabilità che il suo parziale riconoscimento sociale prepara, suggerisce, impone.


Gli ultimi due articoli sono quello di Patrice Maniglier, intitolato «Penser la culture gay», e quello di Geoff Gilbert, intitolato «Les Queer Critics». Il primo articolo ripercorre alcune tappe significative della riflessione gay sull'omosessualità, caratterizzata non solo dal pensare l'omosessualità nei termini di una riflessione filosofica o di una teoria critica, ma dal pensare a partire dall'omosessualità - talora anche per non pensare più a partire da alcuna identità. La rassegna include Sartre (che naturalmente non rientra nella riflessione gay sull'omosessualità), ma se ne libera presto per ripercorrere il contenuto di testi quali Désir homosexuel (1972) di Guy Hocquenghem, scrittore, membro fondatore del FHAR, discepolo e ispiratore di Deleuze e Guattari, nonché gli scritti di René Schérer e soprattutto di Monique Wittig (molte intuizioni della quale si ritroveranno nella versione della Queer theory di Judith Butler), la quale agisce nel campo del lesbismo, e ancora di Foucault e di Eribon. All'A. si deve questa significativa e (non troppo) sibillina notazione: la sessualità è ridivenuta, a partire dagli anni Ottanta, oggetto di un intervento diretto della legge e del potere dello Stato; «così si spiega senza dubbio il silenzio di alcuni di fronte al movimento attuale di rilancio della sanzione penale dei comportamenti sessuali e talvolta la loro partecipazione attiva alla cosa». Il secondo articolo si pone ancora una volta il problema se determinati modi della scrittura siano o no legati a elementi sessuali e per farlo sceglie di partire da Christopher Isherwood, scrittore gay inglese il quale si reca a Berlino nel 1929 (ventenne) per vivere liberamente la propria sessualità, e comincia a scrivere libri nei quali si assiste a una progressiva rivelazione non solo della propria omosessualità, ma proprio del fatto che la maggior parte delle sue decisioni letterarie la riguardano, moltissimi dei personaggi che popolano i suoi libri essendo ragazzi e uomini con i quali Isherwood ha avuto o desiderato avere rapporti sessuali. Questo approccio teleologico - uscire dal silenzio, andare verso la trasparenza testuale e centrarsi sull'identità sessuale - caratterizza, parallelamente, una delle tendenze dei Gay and Lesbian Studies del mondo anglofono, compito primario (anzi fondativo) dei quali dovrebbe essere, a mio vedere, quello di restituire finalmente un passato, una tradizione, una genealogia e una storia alle persone omosessuali, risituandole, tutte, nello spazio e nel tempo: uno spazio densamente popolato, un tempo che, per noi, comincia con l'Iliade di Omero, il primo libro della tradizione occidentale. Eppure, l'uno e l'altra hanno incontrato obiezioni e difficoltà anche e soprattutto interne. Consistenti, in sostanza, ad accentuare (abusivamente, direi) le peraltro ovvie discontinuità, con il risultato di frammentare e spezzettare la storia dell'omosessuale in una serie di identità eccessivamente diverse, dalla Grecia a oggi, complice anche una semplificazione di alcune note tesi di Foucault (già da prendere cum grano salis all'origine), da cui non può non derivare un indebolimento e depauperamento di quell'identità, che si sarebbe trattato e che si tratta ancora di ricostruire. D'altra parte, questo rifiuto di versare tutte le varianti della sessualità tra persone dello stesso sesso nel termine moderno omosessuale/omosessualità (come se le parole avessero una loro sostanzialità e non fossero invece solo comode tessere convenzionali per indicare ciò di cui si parla: residuo, duro a morire, di una mentalità mitico-metafisica) ha facilitato l'emergenza della categoria queer, della quale la letteratura è divenuto il luogo privilegiato di esplorazione, oscillando tra raffinamento e crudezza nel tentativo di articolare nuovi modi di relazioni umane con la scrittura e con la ricchezza testuale (da ricordare che Lee Edelman ha denominato «homographesis» questo legame specifico tra omosessualità e testualità, e che Leo Bersani giunge a collegare la forma sinuosa della scrittura di Henry James con la pratica del fist-fucking). Questi due ultimi articoli si connettono con l'ultima tessera delle «Opere incrociate», il pezzo di Daniel Arsand (autore di La Province des ténèbres, 1998, En silence, 2000, e Lily, 2002) dedicato a Timothy Findley («Timothy Findley, peintre des ténèbres»), di cui ripercorre le opere, sottolineando come anche gli elementi più difficili, irrisolti, ambivalenti della rappresentazione dell'omosessualità o dell'esplorazione dell'identità gay siano rilevanti e preziosi, o in quanto hanno una funzione di stimolo (Arsand parla, in questo contesto, anche di sé) o in quanto aiutano la scavo in profondità, contro una rappresentazione orizzontale e magari di superficie, dell'io gay.


Credo che sarebbe stato difficile, forse impossibile, fare di più, fare meglio, nello spazio di sole quarantadue pagine. Questo Dossier rappresenta innanzitutto l'ambizione della cultura francese a ritrovare in sé stessa tutti i motivi di vitalità e di stimolo di una cultura, come quella gay e lesbica, emergente e insieme millenaria, quindi la sua preoccupazione di edificare la rappresentazione della modernità e della contemporaneità anche sulle radici del classico, e, infine, il forte radicamento della letteratura omosessuale nella letteratura; né si dimentichi che questo Dossier, con la sua doppia intelligente struttura, storico/critica e letteraria, è stato pensato e realizzato da una rivista non gay. Altra caratteristica che s'impone all'attenzione è il fatto che la militanza degli autori contemporanei convocati si risolva tutta e senza residui nella scrittura e nel resoconto storico, senza grumi indigesti di schemi, giudizi o programmi, inevitabilmente impoverenti in sede letteraria o di giudizio critico. E infine colpisce l'amore degli scrittori gay e delle scrittrici lesbiche per il proprio passato letterario, la capacità di assimilarlo e di trattenerlo in sé, anche per superarlo; e, forse anche di qui, la serenità, lo spirito positivo, la consapevolezza di appartenere a una storia grande e a una storia ancora più grande - in ognuno dei due ambiti - che emergono da questo confronto tra omosessualità e letteratura.

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