recensione di Rosanna Fiocchetto
Non dire il mio nome. Una ragazza di nome Pedro
Toscana, nata nel 1970, Paola Presciuttini è al suo secondo romanzo, dopo Comparse (Tropea, 1999, vincitore del premio San Pellegrino) e il volumetto di racconti Occhi di grano (Sensibili alle Foglie, 1994).
Il tema di Non dire il mio nome (recentemente pubblicato dalla casa editrice Meridiano Zero in una collana dal titolo significativo, "Gli intemperanti") è l'identità lesbica; ed è interessante vedere come una giovane scrittrice l'affronti oggi in Italia, cioè in un contesto culturale e sociale ancora in larga misura chiuso all'argomento.
Il percorso di questa identità, non a caso, coincide emblematicamente con la difficoltà a "dire il proprio nome", che viene s-velato solo nell'ultima pagina del libro.
La protagonista cresce nella triste normalità di un "condominio giallo cromo" dell'insediamento operaio di Rosignano Solvay, davanti ad un mare innaturalmente biancoazzurro perché inquinato dalle scorie della fabbrica di cloro e bicarbonato.
In questa realtà velenosa, soffocata tra un padre violento e una madre succube, ha come unico modello positivamente trasgressivo la zia napoletana, Teresa.
È questa donna "resistente" al matrimonio, tranquillamente anticonformista, indipendente, che ha "fatto addirittura un po' di Sessantotto con l'eskimo e tutto", messaggera della passione per i libri e la scrittura, l'interlocutrice del suo raccontarsi.
Definito dall'autrice "una specie di lunghissima lettera intervallata da flash di memoria involontaria", il dialogo con la zia si sviluppa con incalzanti sequenze quasi cinematografiche su un triplice registro narrativo (il presente, il passato prossimo e quello remoto), padroneggiato da Paola Presciuttini con grande controllo dell'intreccio.
Ancora "senza nome" sono l'infanzia e l'adolescenza dell'io narrante, due età del malessere segnate dalla repressione e dall'incomprensione, dall'amore proibito per la "migliore amica" Samantha, dal deludente tentativo di omologazione sessuale compiuto insieme all'amico "diverso", ma non per questo affine.
Quando la senzanome riesce a "scappare dentro un'altra vita", la sua prima tappa è un'isola, come quella della Gorgona, che per lei rappresenta da sempre il mito della fuga ("pensai che un giorno l'avrei raggiunta, a costo di arrivarci a nuoto").
È Capraia il luogo dell'iniziazione lesbica e del darsi un nome: Pedro, "cinque lettere dal sapore spagnolo" portate "come il mantello che rende invisibili gli eroi nel momento del pericolo", con il quale si sente "nata nuovamente".
Il battesimo simbolico avviene durante l'incontro con Marta, grazie alla quale "Pedro" vive finalmente un rapporto amoroso di complice reciprocità:
"Mi sentivo in una specie di classe di una strana scuola del futuro. E Marta era la mia compagna di banco".
Con lei affronta una difficile autonomia dalla famiglia-che-uccide, fatta di precariato metropolitano e di nuove esperienze, di avventure e disavventure.
Impastata di umorismo e rabbia, ironia e innocenza, poesia e crudezza, la storia di Pedro lievita con rapida lentezza, come il pane, verso un epilogo la cui ultima parola è "per ora".
Mantengo il segreto sul vero nome di Pedro, sottolineando soltanto che, alla fine del romanzo, esso riporta visivamente all'inizio, a quella cerimonia rituale della "Prima comunione" implacabilmente fissata in un video dalla zia,
"proprio ora che finalmente sono riuscita a strapparmi il velo dalla testa e a rubare la giacca blu al bambino che sedeva al mio fianco".