recensione di Mauro Giori
E lasciateci divertire!
Sarà che l’umorismo inglese ha notoriamente una marca molto definita, o che semplicemente il trash non è per tutti i palati, ma a uno spettatore italiano cresciuto tra un’Ubalda tutta nuda e tutta calda e un Pierino di troppo, la volgarità irlandese di Mrs Brown's Boys difficilmente può produrre la repulsione che ha suscitato nella critica britannica. Stroncata dalla stampa e dagli spettatori di professione, la serie ha riscosso al contrario un successo di pubblico enorme, tanto da superare negli ascolti persino l’attesissima terza stagione della brillante sit-com Miranda. La rude signora Brown ha del resto una sua storia già piuttosto lunga alle spalle, essendo nata come personaggio per la radio, approdato poi alla narrativa in una serie di romanzi e quindi al teatro.
Ovviamente gli intercalari di questa madre di prolifica famiglia cattolica non sono da tè delle cinque con sandwich al cetriolo, ma sono perfettamente armonizzati al contesto. Tanto più che la protagonista di mezza età inoltrata è interpretata da un uomo che non fa nulla per nascondere di essere un uomo.
Non appaiono nemmeno a fuoco le critiche di razzismo, omofobia e simili rivolte a più riprese alla serie e che sembrano motivate solo da un astio pregiudizievole, nell’intento di sostanziare l’avversione per una comicità che può anche farsi cruda e triviale, ma la cui rozzezza è più apparente che sostanziale.
Vero è che il figlio gay della signora Brown, Rory, presenta tratti in parte risaputi, ma da qui a poterlo liquidare come una semplice macchietta stereotipata ce ne passa. Che poi questo tipo di comicità dalle ombreggiature pecorecce si serva di maschere da commedia dell’arte di provincia è nella sua natura, e va segnato a merito anziché a difetto il fatto che non si faccia nulla per nascondere queste radici (o la matrice teatrale, evidenziata dalle scene rifatte al momento in caso di errori, trasformati così in gag aggiuntive anziché scartati al montaggio).
Prendiamo la sesta puntata della terza stagione, nella quale Rory si sposa con il suo compagno, giusto per cogliere al balzo l’attualità subito dopo la prima approvazione dei matrimoni gay a Londra. La routine comica ruota tutta intorno all’organizzazione del matrimonio, affidata a un fashion-guru televisivo snob, acido ed effeminatissimo. Né si offrono facili compensazioni, giacché Rory e il suo compagno sono solo poco più virili. Ma, come si diceva una volta per consolarsi di simili rappresentazioni, non si ride di Rory e del suo fidanzato, bensì con loro. Questa volta però è vero, perché la satira non è rivolta contro l’omosessualità, ma contro le improbabili figure di sedicenti esperti del nulla, dell'effimero e al più di loro stessi, che proliferano in televisione. Al contrario, l’omosessualità è oggetto di un’accorata apologia in tutta la puntata. L’energica signora Brown, mentre lotta con il nuovo forno a microonde che produce mostri, esalta l’amore del figlio, lo difende contro i preti della parrocchia che affronta vittoriosa sul loro terreno, armata solo di saggezza popolare, e accetta tutte le scelte di Rory. E per far questo personalmente mi va benissimo che ci metta un “fucking” ogni tre parole. L’esperienza mi insegna che l’omofobia è tutta un’altra cosa.
Così come la volgarità vera. Anzi, avere una padronanza dei tempi comici sufficiente a compensare le discese nel pecoreccio non è arte di tutti. Citando Burroughs (a proposito di Reich), direi piuttosto: “This man is a fucking genius”. Che è esattamente quello che direbbe Mrs Brown se vedesse la propria serie in televisione.