La scrittrice inglese Rohase Piercy dev'essere molto appassionata dei racconti su Sherlock Holmes, visto che ha deciso di scriverne un paio di suo pugno, nei quali far venire a galla ciò che ai tempi di Conan Doyle era necessario tenere accuratamente celato, vale a dire l'omosessualità del Dottor Watson (anche qui, come in Conan Doyle, narratore in prima persona) e il suo rapporto col grande investigatore inglese. Ad essere onesti, questo Watson esplicito non è poi tanto più esplicito di quello vero: si tratta pur sempre d'un coscienzioso professionista vittoriano, il quale, nei due sedicenti memoriali postumi che compongono il libro, minus dixit quam voluit. Se a ciò si aggiunge che il povero Watson si rivela intraprendente al punto che dopo quasi duecento pagine Holmes potrebbe commentare, al pari di Zerlina nel Don Giovanni, "non mi toccò la punta delle dita", si può intendere di leggieri come la temperatura erotica dell'opera risulti davvero tiepidina. Ma in fondo, si potrebbe obiettare, a chi interesserebbe una storia di Sherlock Holmes con baci di passion tra lui e Watson? E dunque la Piercy si guarda bene dall'offrircene una, anche perché, a giudicare dal poco che lascia intravedere, l'erotismo maschile non è proprio la sua specialità. Molto più brava si dimostra nel mimetismo linguistico: qui sì che a tratti suona come un Conan Doyle autentico; a volte le mancano peraltro l'inventiva e il ritmo narrativo del suo modello, sicché, se il primo dei due racconti rimane godibile e scorre via lesto e compatto, tanto che gli si perdonano anche certe ingenuità nella trama, il secondo riesce assai più macchinoso, a tratti pesante. Brutto tuttavia il libro non è: si legge in fretta, e come curiosità, rivisitazione ed esercizio di ammirazione ha pure la sua validità; gli appassionati di Conan Doyle, visti i frequenti rimandi alle opere genuine dello scrittore inglese, lo potranno ritenere interessante; e tutti gli altri lo potranno trovare un simpatico trastullo, anche se, tutto sommato, non è niente di speciale.