recensione diMauro Giori
Love Actually… Sucks
L’inizio è folgorante e riesce nell’impossibile: fare provare il desiderio di essere presente a un matrimonio. Nel pieno del ricevimento, l’ex amante del marito bisessuale/velato proietta a tradimento un filmato che, come dire, mette a nudo le reali inclinazioni dello sposo. Love actually… sucks, il titolo, compare proprio mentre l’ormai già ex-marito è mostrato sullo schermo con l’amante in mezzo alle gambe intento a praticargli ciò di cui al titolo stesso (non so se quello originale conservi il doppio senso dell’inglese).
Spiega il regista in un’intervista: «Succhiare è un simbolo importante del film. È un atto di pura generosità: nel succhiare, si dà piacere a un’altra persona senza ricavarne niente. Si succhia solo chi si ama». Evidentemente il mondo gay è pieno d’amore e non lo sapevamo, comunque questo perfido outing assolve funzione di prologo dal momento che i personaggi delle successive vicende sono tutti presenti al matrimonio, benché non si conoscano fra di loro. I frammenti delle loro disavventure sentimentali vengono poi continuamente alternati in un intreccio vagamente altmaniano, dallo svolgimento talora faticoso e non sempre equilibrato nell’approfondimento dei personaggi.
Le vicende offrono campioni di amori andati a male, ispirati ad altrettanti casi giuridici ricostruiti con toni da commedia nera. Nella casistica rientrano un fratello e una sorella incestuosi; un pittore che si invaghisce del suo muscoloso modello; una giovane poliziotta con una fidanzata squilibrata; un ballerino tentato da una ricca ma attempata allieva; uno scalatore che, piantato dalla fidanzata solo perché squattrinato, la decapita e ne porta a spasso la testa nella custodia del casco (e benché l’omicidio sia una scena raggelante e inequivocabilmente aberrante, confesso pensieri di simpatia politicamente scorretta e un vago desiderio di comprarmi una moto).
A dispetto delle premesse e delle vicende stesse, il film si propone come un inno all’amore: lo esplicita la didascalia finale. Senza la quale in effetti il messaggio non sarebbe stato poi così ovvio, data l’evidente simpatia mostrata dal regista per i suoi antieroi, indipendentemente dalla gravità delle nevrosi che, caso per caso, ne contraddistinguono la facoltà amatorie.
Ma in fondo l’idea del film è tutta in questo paradosso: inneggiare all’amore mostrandone il lato oscuro, e solo quello. Il problema è che, nonostante questa prospettiva singolare, l’assunto (l’amore è il motore della vita) è trito e la nemesi del cinema hollywoodiano funziona solo in parte. Anche perché la metafora del titolo tanto cara al regista può bastare per alimentare i risvolti umoristici del racconto, ma non ha solidità sufficiente a sostenere quelli seriosi.
Tuttavia quella sorta di melodramma imputridito che ne esce incuriosisce abbastanza da attrarre lo spettatore sino al termine del racconto, nonostante qualche tratto impervio e benché giunti ai titoli di testa si sia già visto il meglio.
Come nei suoi precedenti film, Danny Cheng Wan-Cheung (in arte Scud) ricorre a scene molto esplicite e a una gran quantità di nudo, per cui si è visto censurare in patria e altrove, ma senza gratuite forzature né provocazioni che eccedano gli standard attuali.