recensione di Mauro Giori
Domenica maledetta domenica
Forte del successo appena ottenuto con Un uomo da marciapiede, il regista John Schlesinger, gay dichiarato, si concede un film molto personale e intimista, la cui sincerità di intenti a suo tempo lasciò perplessa buona parte del pubblico. Il film, incompreso e osteggiato, dal punto di vista commerciale fu un fallimento, ma si guadagnò gli apprezzamenti di una parte della critica e, per una volta, della comunità gay.
Domenica, maledetta domenica è uno dei pochissimi film dell'epoca capace di rappresentare l'omosessualità senza farne un caso di cui discutere: degli stereotipi che hanno segnato tanto cinema precedente e successivo qui non c'è nemmeno l'ombra. Nel triangolo costituito da un medico di mezza età (Peter Finch), da una ricca impiegata annoiata (Glenda Jackson) e da un giovane artista-inventore (Murray Head), il fatto che il primo sia omosessuale, la seconda eterosessuale e il terzo bisessuale è dato per scontato: sono tre forme d'amore (non è solo questione di sesso) paritarie, trattate con la stessa naturalezza e la stessa dignità. Né vi sono disparità nella rappresentazione: Head bacia Finch come la Jackson, ed è mostrato a letto con l'una come con l'altro.
Non è difficile capire perché a suo tempo il film fece tanto discutere e scandalizzò molti benpensanti (fece particolarmente scalpore la scena del bacio tra Finch e Head: era la prima volta che due uomini si baciavano in un film mainstream). Ma il gradimento del pubblico era anche compromesso dalla scelta intimista di Schlesinger: il film si basa sull'interpretazione dei tre ottimi protagonisti, sull'esplorazione instancabile delle loro insoddisfazioni, dei loro sentimenti, espressi con piccoli cenni, gesti quotidiani, sguardi, sottili allusioni. Si sentono ancora la semplicità, l'importanza dei tempi morti, la misurata ironia, la malinconia struggente che sta al fondo di una soddisfazione impossibile, in una parola l'autenticità del free cinema, che si traducono in un film delicato, semplice come «un colpo di tosse», misurato anche nei rari momenti visionari, capace di trasmettere verità senza bisogno nemmeno di far parlare i personaggi, borghesi in cerca di una soddisfazione sentimentale impossibile per tutti (e non certo per le loro scelte).
Giustamente celebre il monologo finale del medico che si dichiara felice, e sostiene a chiare lettere che l'essere gay non gli ha causato alcuna sofferenza: "La gente diceva che non sarei stato felice. Ma io sono felice, a parte il fatto che lui mi manca".
Una lezione di cinema che purtroppo il cinema gay degli ultimi trent'anni non ha saputo far sua.