recensione diMauro Giori
The Big Gym Musical
Pur di non dover pensare di avere una qualsiasi cosa in comune con chi ha fatto questo film, per la prima volta in vita mia ho (tenuemente) vagheggiato di essere etero.
Vedere The Big Gay Musical è stato come sottopormi a quelle terapie di burgessiana memoria elaborate dalla psichiatria del dopoguerra, in cui si sommavano immagini erotiche e stimoli dolorosi o sostanze repellenti per scoraggiare l’omosessualità mediante associazioni pavloviane. Ad ogni nuovo maschione che compariva sullo schermo ho provato infatti un crescente senso di nausea. Il che è un risultato non indifferente per un film che racconta l’allestimento di un musical contro l’omofobia religiosa, e il revisionismo della Genesi con cui inizia lo spettacolino non è nemmeno da buttare. Peccato poi la tenuta narrativa sia inconsistente quanto l'espressività degli attori, quanto i drammi accampati nell'intreccio e quanto il livello dei numeri musicali. Che per un musical non è un problema da poco. Ma il problema vero è un altro.
The Big Gay Musical è uno di quei film popolati esclusivamente da ragazzotti molto piacenti, nessuno dei quali ha ancora esaurito i vent’anni. Le poche eccezioni sono relegate sullo sfondo, mero pubblico che non vive e può solo guardare questi adoni muoversi con sicumera nell’universo, raccogliendone (se baciati dalla fortuna) sguardi di disprezzo. È un po’ come nelle compagnie teatrali tradizionali, in cui gli attori assolvono a certi ruoli (e non altri) a seconda dell’età e della prestanza. Qui i rospi e i non ventenni sono ammessi solo per parti ben precise (i genitori, i rimorchiatori patetici), mentre i giovani prestanti hanno tutti (e in esclusiva) la stessa parte: il gay per antonomasia. Gli altri gay non giovani e non piacenti sono trattati come aberrazioni, incidenti di percorso che hanno l’ardire di mettersi sulla strada di mattoni gialli che porta verso la felicità questi spaventapasseri di latta sagomati in palestra.
Ora, fosse prodotto da BelAmi e i fanciulloni in questione si togliessero le mutande il film avrebbe senso, beninteso: sarebbe una fantasia godereccia onestamente funzionale al suo scopo. E non è un caso che l’attore più “in parte” sia il pornodivo Brent Corrigan nel ruolo del prostituto.
Ma The Big Gay Musical ha velleità militanti, perché vuole prendere posizione contro l’omofobia, vuole insegnare il sesso sicuro (tanto che uno dei ragazzotti si prende l’Aids: lo si capisce perché per circa due secondi tiene il broncio) e vuole addirittura proporsi come un apologo della relazione stabile contro il sesso occasionale (il che, date le premesse, è credibile come un invito alla promiscuità che venisse dal papa).
Tutte belle cose se il messaggio di tolleranza universale non scambiasse la palestra con l’universo, e questo mi irrita anzitutto in quanto essere pensante, poi in quanto gay, quindi in quanto non-più-ragazzo-mai-stato-muscoloso-né-mai-voluto-esserlo, avendo messo piede in palestra una sola volta nella vita, cosa per la quale ho le mie attenuanti e un certificato medico che attesta che quel giorno non ero in grado di intendere e di volere.
Se il film si fosse chiamato The Big Gym Musical non avrei nulla da ridire, perché non ho niente contro le palestre e i loro frequentatori, ma solo contro la reductio ad unum della sana molteplicità dell’universo (anche di quello gay). Di cui è particolarmente sintomatica la sequenza in cui Eddie sale sul banco del locale e si sostituisce al cubista, con ovvio successo, perché i due (cioè la statua vivente e quello che dovrebbe essere un normale avventore) sono indistinguibili.
Trovo che un film gay che mi faccia sentire diverso e sgradito quanto e più di un film etero d’antan, proprio nel momento in cui ha la pretesa di parlare a tutta la comunità concedendosi il lusso di ignorarne la maggior parte, sia ipso facto squalificato, indipendentemente dall’importanza, dalla correttezza, dall’opportunità di quello che ha da dire. Non c’è militanza che meriti di essere ascoltata se parte sposando l’idea, diffusa nella comunità gay, per cui dopo i 25 ogni anno conta per sette, come per i cani, sicché a 30 si è già nella mezza età e a 40 nella terza, tanto che dobbiamo stupirci di non essere ancora stati portati dal veterinario per essere abbattuti.
Non posso credere alle buone intenzioni di un film che ha la pretesa di essere pieno di messaggi ma non ha nulla da dire quando il protagonista disprezza un poveraccio che lo ha rimorchiato su internet e la cui colpa è quella di non essere muscoloso e di aver passato i 30. Come se il comportamento del protagonista fosse santificato da qualche legge non scritta dell’universo gay (per esempio che i maschioni possono accoppiarsi solo fra di loro, incestuosamente). Non è questo un personaggio in cui posso identificarmi fino al punto di desiderare non dico che risolva i suoi problemi affettivi, ma anche solo che non finisca sotto un autobus uscendo dall’ennesimo locale gay popolato solo da palestrati.
E poi, se dobbiamo proprio dirla tutta, è la premessa che non regge, e cioè che lo statuario Eddie sia ancora vergine nonostante viva a New York, faccia l’“artista” in una compagnia di musical gay e frequenti palestre da anni. Credibile quanto l’eterosessualità di Bolle. Giusto per stare in tema. Di ballerini, intendo. Sicché anche in questo caso lo spettatore ben difficilmente potrà appassionarsi al dramma del fanciullo, il quale non ha detto ancora niente ai religiosi genitori. Quando poi per fare la faccia disperata sa a malapena abbassare gli angoli della bocca, viene proprio voglia di fargli l’outing. Tanto ovviamente il problema si risolve da sé poiché a mamma e papà basta vedere il musical per convertirsi alla causa. Ma che genitori debosciati sono questi? Voglio dire: assistete allo spettacolo e non avete niente da dire a vostro figlio, nonostante abbiate così scoperto tutto su di lui? E non intendo che è gay, ma che non ha nessun talento e che è destinato a replicare in eterno musical orribili in una compagnia di dilettanti che non avrebbero passato nemmeno le selezioni per la Corrida. Io a mio figlio due parole le avrei dette.
Concedo che la critica militante debba avere come primo obiettivo polemico il cinema istituzionale che ci ha ignorato per decenni, proponendoci compulsivamente l’incubo di un universo esclusivamente eteoressuale, e usandoci al più solo per replicare fobie e ansie culturali ben precise. Ma il secondo obiettivo deve essere autocritico, oggi più che mai di fronte alla quantità di film gay sfornati. Quantità che ci autorizza a chiedere film gay che siano anche intelligenti e, perché no, belli. O almeno una delle due cose. Possiamo concederci il lusso di non accontentarci più.