Coming out of the... coffin

1 aprile 2013

Come già nel 2010, alcuni mesi fa la BBC ha commissionato un’indagine per studiare la rappresentazione sui suoi canali delle persone glbt, dalla quale è emersa la necessità di fare di più e di meglio, cioè di aumentarne il numero e la diversificazione riducendo gli stereotipi, soprattutto nei programmi per bambini e nello sport. Fantascienza per noi, dove la televisione è pensata da un lato in alternativa alla messa per le pensionate della domenica e dall’altro per gli orfani di Edwige Fennech e Carmen Russo ancora bisognosi di qualche crassa distrazione eterosessuale.

A fronte di questa indagine, In the Flesh (allora già in produzione) può sembrare troppo restia a chiamare le cose con il loro nome. La descrizione con cui il sito ufficiale della BBC presenta i due protagonisti (Kieren e Rick) è ad esempio un capolavoro di understatement. Del primo si legge: «As a teen, he was into everything alternative: music, books, counter culture in general. And he loved hanging out with his best mate, Rick. When Rick joined the army rather than tell his Dad he and Kieren had a connection, Kieren was heartbroken». Di Rick si dice invece: «As a lad, Rick was always encouraged towards macho pursuits, but no matter what he did, he couldn’t hide his growing bond with Kieren. Rather than be open with his Dad about his close friendship with outsider Kieren, Rick joined up». Ma mettendo insieme il carattere “alternativo in tutto” di Kieren e la sua “connessione” con Rick, “il legame crescente” di Rick con Kieren “nonostante” le pressioni per essere “macho”, il fatto che possa essere un problema per lui essere “franco con il padre circa la stretta amicizia con l’outsider Kieren”, direi che il nome di questa amicizia che non è solo amicizia è proprio l’unica cosa che manca.

Lo stesso si può dire della serie vera e propria, di ottima fattura e originale nella sua variazione sull'abusato tema degli zombie. Senza perdere tempo a spiegare perché i morti tornino in vita o come si sia arrivati a reintegrarli nella società, In the Flesh si concede qualche tonalità horror ma punta in realtà sul melodramma. Ora, se si considera come l’horror, attraverso la metafora universale del mostro, ha sempre parlato di diversità, e se si aggiunge che il melodramma tipicamente affronta la società studiandone un campione, si comprende il potenziale politico della serie, aggiornata al problema di una ormai crescente integrazione sociale di quanto era un tempo additato come abominevole.

In questo caso il campione è una piccola comunità rurale, il cui parroco predica l’odio nei confronti degli zombie, mentre il governo cerca di reintegrarli assicurando tutti circa il loro carattere inoffensivo, a dispetto di quello che la gente crede di sapere, istruita da luoghi comuni, odio mistico e cinema.

Ma per chi li ha a lungo odiati con il beneplacito delle autorità stesse, non è facile tornare sui propri passi, nemmeno quando scopre che il diverso ce l’ha in casa. È il caso di Bill, il padre di Rick. Del resto lo sapeva già, sia pure su un versante differente: è qui che si incrociano al meglio horror e melodramma, diversità del mostro come metafora della diversità sessuale. Era stato infatti proprio Bill a spingere il figlio nell’esercito (dove aveva trovato la morte durante una missione in Afganistan), e proprio per allontanarlo dall’“amico” Kieren, persona non grata in famiglia sin da quando aveva regalato a Rick un disco con una compilation appositamente preparata. Poi Kieren aveva passato le giornate a ritrarre Rick, a incidere sulla pietra di una grotta tracce del loro legame, a scrivergli lettere mentre era sotto le armi. Lettere che Rick non ha mai ricevuto (e che qualcuno nell’esercito ha quindi ritenuto inadeguate) e cui non ha pertanto mai potuto rispondere, tanto che Kieren, sentendosi abbandonato, si è suicidato. Quando i due si ritrovano, zombie entrambi, i loro sentimenti non sono cambiati: è per Rick che Kieren ancora rifiuta di lasciare il paesello natio.

Ma non è cambiata nemmeno l’ostilità di Bill nei loro confronti. Incapace di riconoscere che Rick è come Kieren (cioè uno zombie, e qualcos’altro di anche più innominabile), Bill prende misure drastiche e non arretra nemmeno di fronte alla tragedia incombente. Per salvare il salvabile Rick alla fine fa anche una sorta di coming out (versione zombie). E Kieren, prima di affrontare a sua volta Bill, sussurra all’orecchio del cadavere di Rick qualcosa che non udiamo, ma che è facile immaginare non essere solo: «Sei il mio amicone». Senza contare che alla scena assiste il vicino, la cui moglie zombie era già stata uccisa da Bill in una delle sue ronde post-eucaristiche da esaltato. E l’uomo in questione decide di vendicare la sposa proprio dopo aver visto lo strazio di Kieren sul cadavere di Rick: un modo per collegare la sua situazione a quella del ragazzo (mettendo quindi implicitamente Rick nel ruolo della moglie). E lo stesso implica il fatto che, per consolare il figlio ed evitare che alla fine si suicidi un’altra volta, la mamma racconti a Kieren di un proprio amore giovanile finito male, riconoscendo così nel legame tra i due ragazzi appunto un amore fatto e finito.

Nell’attesa dunque che la BBC applichi al meglio i risultati della sua indagine (come, siamo certi, farà anche la RAI, intorno al 3025, mese più mese meno), devo ammettere di aver guardato con passione crescente queste tre puntate proprio per la loro capacità di dire tutto senza dire niente. In tempi in cui anche le serie tv più periferiche sono molto esplicite, vedere un prodotto che sa ancora lavorare con intelligenza sui sottotesti, come si faceva una volta (per necessità più che per scelta), sollecita una piacevole nostalgia e un godurioso desiderio di partecipazione attiva nel raccogliere gli indizi, collegarli e tirare le somme. Se gli indizi abbondano, come in questo caso, si sventa automaticamente il rischio della reticenza omertosa per preferire semplicemente una forma di narrazione che ha la fragranza discreta delle cose buone di una volta.

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