recensione diMauro Giori
Equus in fabula
Lungo tutti gli anni Settanta, Equus riscosse un successo enorme, prima a Londra, poi a Broadway e infine al cinema (Lumet ne trasse un film nel 1977; nel frattempo la versione teatrale era arrivata anche in Italia, nel 1976, a Genova). Oggi i più se lo ricordano per come si è cercato di costruirvi intorno un caso quando, nel 2007, è stato rimesso in scena a Londra scritturando Daniel Radcliffe. E non si può negare che Radcliffe non avrebbe potuto scegliere meglio per svincolarsi dal personaggio di Harry Potter, che ne aveva fatto la fortuna ma rischiava di limitarne le possibilità di crescita, così come la produzione non avrebbe potuto inventarsi una scelta di marketing più azzeccata del far spogliare integralmente l’ancor minorenne eroe della saga infantil-adolescenziale più in voga, per farlo poi flirtare con un gruppo di corpulenti ragazzotti travestiti da cavalli.
Equus racconta infatti il caso (di cronaca per lo spunto, clinico nello sviluppo) di un giovane dalla sessualità eterodossa (Alan) affidato a un psichiatra (Martin) dopo che, apparentemente senza motivo, ha aggredito e accecato i cavalli del maneggio presso cui era impiegato. Nonostante la sua omosessualità e quella del regista che diresse il primo allestimento (il famigerato John Dexter), Shaffer ha sempre negato che Equus abbia alcunché a che fare con ragazzi che amano ragazzi. Ma non ci ha mai creduto nessuno e le letture in questa chiave sono serpeggiate, fra pubblico e critica, sin dall’inizio. Il recensore del «New York Post», per non pescare che un esempio dal mucchio, di fronte alla versione importata a Broadway si lamentò di come Anthony Perkins si sforzasse di evitare di guardare il giovane Tom Hulce per non avallare speculazioni sul rapporto tra i due personaggi (ovvero su se stesso, dal momento che Perkins si era sposato da pochi anni e cercava di accreditarsi come eterosessuale). Nondimeno, scriveva il critico, in tutta l’opera il «rimando all’omosessualità è inequivocabile».
Negli anni successivi allusioni intenzionali sempre più scoperte sono emerse in vari allestimenti, sino a quello in chiave leather appena messo in scena in un teatro di Phoenix dal nome evocativo (Nearly Naked Theatre), senza contare l’edizione a stampa del 2009 pubblicata dalla Old Stile Press e illustrata da tavole del pittore Clive Hicks-Jenkins (che sul suo blog descrive il proprio lavoro come “quotidiano revisionismo omosessuale”).
Non occorre in effetti scavare granché, basta grattare la superficie per capire come questo dramma si sia prestato a fare da potente metafora della condizione omosessuale di quegli anni, affondando le radici nella rivoluzione sessuale e in molti suoi rivoli. Allo stesso tempo, la vicenda risuona di echi tragici, sobri ma decisi, sia nelle sublimazioni mistiche di Alan sia nelle elucubrazioni di Martin. Tanto basta a sintetizzare adagi sempiterni, il cui didascalismo è però scongiurato dalla preferenza accordata ai rovelli dello psichiatra sulle più facili asserzioni perentorie.
Se quindi Shaffer, ritirando la mano dopo aver lanciato il sasso (un sasso che era un macigno), ha perso l’occasione di essere il Kushner degli anni Settanta, Equus si rilegge e rivede con fascino e interesse come l’Angels in America del decennio della crisi della psicoanalisi e della ripresa di una militanza che basava se stessa sull’idea dell’orgoglio, qualcosa di molto vicino a quella Passione di cui Martin finisce col rivendicare il diritto all’esistenza e che non riesce a far coincidere con la malattia, come invece la sua disciplina gli prescriverebbe di fare.
Il dramma è condotto con considerevole perizia e l’eleganza della scrittura sostiene bene l’aura con cui la regia di Dexter, poi universalmente imitata, cercava di riesumare la ieraticità della tragedia greca per accentuare certe valenze rituali e simboliche del percorso inverso dei due protagonisti.
Allo scopo il testo prescrive una messinscena anti-realistica, raccomandando ad esempio che i cavalli tanto amati da Alan siano incarnati da uomini sui quali solo una maschera suggerisce debbano avere natura equina. La deviazione erotica di Alan è dunque raccontata come una passione smodata e sacrale per i cavalli ma è messa in scena come una fascinazione ingovernabile per il proprio sesso, senza contare che finisce col sedurre anche Martin.
Inoltre, la ricerca di spiegazioni scopre e accumula passo dopo passo tutti gli elementi fondamentali dell’anamnesi familiare che tanta letteratura psicoanalitico-psichiatrica propagandava come canonica di molti “casi” di omosessualità, a cominciare da una madre opprimente e da un padre debole e remissivo. Si aggiungano un’educazione ammorbata da un clima di fanatismo religioso e da una conseguente repressione sessuale (anche il padre deve frequentare di nascosto un cinema porno per sfogarsi) e si comprende perché, per Alan, assuma valore di liberazione l’epifania folgorante di un eros proibito, che risale all’incontro salvifico sulla spiaggia con un bellissimo cavallo, montato peraltro da un giovane che sa tenere testa ai genitori presi da crisi isterica.
Ma le pressioni sociali permangono violente sicché, quando viene avvicinato e sedotto da una ragazza con mezzi spicci, Alan sperimenta in termini dolenti la sua “diversità”, lui che orgasmava solo cavalcando di notte, nudo e di nascosto, i cavalli (maschi) accuditi di giorno. A Martin si confesserà in questi termini:
Non potevo… vederla. Solo Lui. Ogni volta che la baciavo – Lui si metteva in mezzo. […] Quando la toccavo, sentivo Lui. Sotto di me… il fianco di Lui, che aspettava la mia mano… I suoi fianchi… Lo rifiutai. Guardai. Guardai diritto lei. E non potevo farlo. Quando chiusi i miei occhi, vidi subito Lui. Le striature sul suo ventre… Non potevo sentirla per niente!
Sovrapponendo alla propria passione erotica una complessa sovrastruttura mistica, Alan ne ricava una nevrosi che Martin cura con crescenti sensi di colpa. Equus è infatti anche un considerevole testo antipsichiatrico nella misura in cui Martin, pur portando a termine il proprio incarico, si convince sempre più che curare Alan significhi privarlo di una passione vitale proprio perché eversiva (il termine, così caratteristico di quegli anni, è messo in campo dallo psichiatra già nel suo primo monologo). Una passione riservata a pochi fortunati, tanto che Martin la invidia in misura crescente, non avendola mai sperimentata nel suo algido rapporto coniugale. E si trova così a rimestare le sue convinzioni:
La Norma è il buon sorriso negli occhi di un bambino, d’accordo. Ma è anche lo sguardo morto in quelli di milioni di adulti. Sostiene e uccide – come un Dio. È l’Ordinario reso splendido: è anche la media resa letale. Il Normale è l’indispensabile, omicida Dio della Salute, e io sono il suo Sacerdote.
La normalità appare a Martin sempre più come una spaventata retrocessione nella mancanza di vita e Martin invidia ad Alan ciò che lo ha portato lontano da quella Norma cui la sua professione lo obbliga ora a ricondurlo. «La Passione, può essere distrutta da un dottore. Non può essere creata», deve riconoscere con rimpianto e gelosia.