Maurice reunion

15 aprile 2013

E così alla fine Maurice non ce l’ha fatta: ha lasciato Alec, si è sposato, e di tanto in tanto batte ancora i cessi di Londra. Coerente con se stesso, Alec è invece rimasto orgogliosamente fedele alle proprie scelte, e ha anche fatto carriera come sceneggiatore.

Ritrovare James Wilby e Rupert Graves recitare insieme e rimorchiarsi a vicenda in un pisciatoio pubblico di Clapham a vent’anni esatti da Maurice ha inevitabilmente, ma direi anche volutamente, il valore di un fantasia intertestuale offerta alle speculazioni del pubblico gay. E in fondo Clapham Junction è tutto qui, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Prodotto da Channel 4 per celebrare i quarant’anni della legalizzazione dell’omosessualità in Gran Bretagna, nell’offrirsi come un trattato contro l’omofobia il film prende ispirazione da vicende reali, a cominciare da quella di Jody Dobrowski, massacrato a morte due anni prima in un parco di Clapham, a soli ventiquattro anni. Encomiabile anche l’assunto autocritico di partenza: Robin sottopone a un produttore di Channel 4 una sceneggiatura su alcuni personaggi gay che gli viene rifiutata perché «the all gay thing, isn’t an issue any more». «It’s been done: we moved on, it’s accepted», continua il produttore. Il film vuole dimostrare il contrario, e cioè che l’omofobia è un crimine d’odio che non appartiene alla storia, è che è pericoloso farsi illusioni in merito.

Mentre strizza l’occhio al pubblico gay, la scena tra Maurice e Alec, ora Robin e Julian, distrugge però la più romantica fantasia che il cinema abbia dato a tutta una generazione di omosessuali pre-internet e pre new queer cinema, per la quale trovare racconti simili era quasi come cercare l’unicorno. Un risultato paradossale, se si vuole, ma l’impressione non è infondata: nel suo tentativo di denunciare l’odio contro gli omosessuali, Clapham Junction non sa infatti esimersi dal suggerire che in fondo è un po’ anche colpa loro, delle loro abitudini di vita e di battuage. Ora, a nessuno che abbia presente anche solo i rudimenti della nostra lunga storia (o anche solo degli ultimi trent’anni, dall’Aids in avanti) possono sfuggire i rischi dell’implicare che i gay se le vanno a cercare poiché sono gente guidata solo dagli ormoni dai quattordici anni fino alla pensione. Eppure il quadro tracciato da Clapham Junction è proprio questo, a partire dal minorenne Theo (pura pubertà ambulante che irrompe nella casa del dirimpettaio trascurando deliberatamente il fatto che ha il doppio dei suoi anni e il quadruplo dei suoi problemi emotivi) fino a Will, che non sa rinunciare a rimorchiare il primo che capita nemmeno nel giorno della sua civil partnership. Lo stesso dicasi della frotta di comprimari e di comparse che passano la vita a battere nel parco, nei cessi o in un locale a caso.

Anche Robin, quando abbozza una difesa di fronte ai commensali imborghesiti (ovviamente senza il sostegno del velato Julian, che non osa prendere la parola davanti alla moglie), sa dire solo che forse queste pratiche risultano più eccitanti della noiosa “accettazione”. Persino il povero Danny sembra andarsele a cercare, dal momento che declina l’offerta di aiuto dell'angelica maestra di violino. Il problema è che il film non dice nulla sul perché questo adolescente, che ha dovuto evidentemente elaborare la propria diversità da solo per non deludere la madre tanto fiera di lui, non riesca a confidarsi e cerchi di sopravvivere da sé nella giungla eterosessuale in cui si è trovato a vivere. Né una parola viene spesa per cercare di spiegare donde vengano certe abitudini tanto “rischiose” con cui si fa coincidere l’omosessualità nella sua totalità. Né in fondo si dice nulla di dove venga l’omofobia stessa, quell’odio che trova terreno di cultura ottimale nei nullafacenti e nei nullapensanti che affollano l’universo (magari guidando governi e congregazioni religiose), giacché la madre dei cretini è sempre incinta. Senza contare che il padre è un gran puttaniere, aggiungiamo noi al proverbio per rispetto delle pari opportunità.

Il quadro è dunque fosco e monocolore fino a rischiare di sprofondare nel pregiudizio che vorrebbe combattere, e la mancata esplorazione del retroterra di queste vicende e di questi personaggi rende le une e gli altri solo più inquietanti, senza che questo risultato torni effettivamente utile alla dimostrazione delle tesi messe in campo. La decisione finale di Julian di testimoniare è uno squarcio insufficiente a compensare le nubi che si sono addensate.

Su una cosa il film ha ragione: di raccontare l’omosessualità c’è ancora un gran bisogno, e un film come questo, proprio perché sul parchetto di Chapman alla fine non sa scrivere altro che hic sunt leones, lo dimostra tanto per partito preso quanto per i suoi involontari risultati collaterali.

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