recensione di Mauro Giori
Foucault non docet
Da decenni siamo abituati a sentire citare Foucault a sproposito, infilato ovunque da sostenitori e detrattori che di solito non l’hanno letto, l’hanno letto male, ne hanno un ricordo vago o peggio lo confondono con la queer theory. Nonostante questo, non mi era mai capitato di vederlo chiamato in causa in modo tanto frivolo quanto in Grande école, dove viene (ab)usato giusto per millantare uno spessore culturale in realtà assai fatuo, perché risuona nel vuoto. Né più né meno di quanto accada col Simposio citato in greco a cena da lei dopo che lui si è esibito nell’ordinare dal cinese in cinese, anche se siamo a Parigi. Puro kitsch intellettuale, come le danze ungheresi di Brahms usate per accompagnare gli allenamenti di pallanuoto, che c’entrano come i cavoli a merenda.
Considerato che i francesi non sono celebri per la loro modestia, immaginate cosa sono i rampolli che frequentano una grande école, cioè una di quelle scuole elitarie che in Francia affiancano le università, e immaginate cosa possono essere quelli che frequentano la grande école di economia, cioè i figli dei dirigenti allevati per essere dirigenti solo perché figli di dirigenti. Non mi ha sorpreso quindi non trovare in tutto il film una singola figura con cui lo spettatore possa stabilire un rapporto empatico sufficiente a creare un minimo di identificazione. E questo vale anche per Paul, che dei cinque protagonisti dovrebbe essere quello che ha preservato un certo grado di umanità, sia perché tribolato dalla scoperta della sua omosessualità sia perché si trova (o almeno dice di trovarsi) a disagio in quel tipo di scuola.
Difficile allora capire perché qualcuno possa voler fare un film su cinque beoti algidi, arroganti e inutilmente cerebrali (più facile è capire perché non ne ha poi fatti altri). Su di loro mi pare dica tutto il pretesto narrativo che fa da perno alla storia: una delle due fanciulle (Agnes) si accorge che il suo ragazzo (il sunnominato Paul) potrebbe essere più interessato a un altro ragazzo che a lei. Infatti, da quando ha conosciuto il suo compagno di stanza, Louis-Anault, Paul non è più lo stesso (e qui dobbiamo fidarci della parola di Agnes, perché l’interprete del giovane non è in grado di esprimere sottigliezze e attraversa tutto il film, e vari letti, senza modificare di una virgola le sue espressioni). Ora, cosa fa la pulzella? Parla al suo ragazzo e cerca di capirlo? Compra nuova lingerie? Lo minaccia? Lo pianta? Nulla di tanto consueto. Lo sfida invece a una gara di seduzione in base alla quale si giocheranno i loro destini: se a farsi per primo il terzo incomodo sarà lei, allora Paul dovrà rinunciare per sempre alla sua omosessualità; se vincerà lui potrà tenersi il bel fanciullo e lei sparirà. E questo non perché Agnes sia sadica, masochista o più sbalestrata degli altri, ma solo perché è francese, frequenta una grande école ed è sufficientemente ricca da non aver problemi e da potersi quindi permettere il lusso di inventarseli. Si balocca così nell’ideare qualcosa di estroverso e di inutilmente complicato per risolvere la questione, convincendo in sovrappiù se stessa e gli altri che tale parto della sua mente annoiata non solo sia effettivamente efficace come metodo decisionale, ma rappresenti anche l’unica via d’uscita possibile dall’impasse.
La questione si complica poi ulteriormente perché Louis-Anault, che è per qualche ragione oggetto dell’interesse di tre su quattro dei suoi comprimari, è tutt’altro che ignaro di quanto sta accadendo, sicché si diverte a ricaricare ulteriormente l’assurdo con interpretazioni dietrologiche del comportamento dei due sfidanti, seducendo lei e stuzzicando sadicamente lui (ad esempio se lo porta negli spogliatoi della sua squadra di pallanuoto, gli legge Chateaubriand nudo a letto, o gira in mutande per la stanza persino quando ha la febbre).
Come non bastasse, la gara non ha senso dal momento che Agnes potrebbe portarsi a letto il rivale quando vuole ma fa la sdegnosa, mentre Paul nemmeno ci prova e si limita a rubare a Louis-Anault le mutande in un empito feticista. Per il resto preferisce concedersi a un immigrato magrebino, Mécir, giusto perché così alle diversità erotiche si possono aggiungere quelle di ceto e quelle etniche, magari evocando vaghi rigurgiti della questione algerina in sottofondo, cosicché tutto sembri più sottile. Spetta pertanto a Mécir offrire un’alternativa semplice all’amore cerebrale dei cinque, uscendosene con perle di saggezza del tipo “non sono frocio è solo che mi piaci tu”, “l’amore a vent’anni va semplicemente vissuto” (questa in realtà è sua mamma, ma lui sottoscrive), “io ho fatto un’altra scuola, la vita”, ecc.
È per fare da collante ai pretesi risvolti sociali di questi intrecci che è scomodato Foucault, il quale rappresenta la passione di Paul, anche se dobbiamo nuovamente fidarci di quanto ci viene detto dagli altri personaggi poiché lui non dice né fa mai nulla che possa essere ricondotto all’influenza di tanto pensatore, né per la verità lo vediamo mai leggere una riga in tutto il film.
Potremmo certo stare a interrogarci sul fatto che Agnes non si conceda perché non vuole davvero stare con Paul, e che quindi dietro il suo assurdo castello di carte si nasconda chissà quale trauma infantile, desiderio inespresso, insoddisfazione indicibile, ecc. Ma per fare dietrologia occorre che ne valga la pena, cioè che si sia accumulata una massa critica (in termini di interesse per la storia o i personaggi) sufficiente a innescare un desiderio di indagine, di modo che qualcosa ripaghi dello sforzo fatto. Non è questo il caso. Neanche immaginando il film scritto un po’ meglio e recitato da attori un po’ più che modesti si intravedono bastevoli margini di miglioramento.