recensione diMauro Giori
Portrait of Jason
A metà tra confessione spontanea e performance consapevole, Portrait of Jason è uno dei testi più noti della scuola documentaristica del cinema diretto e uno dei più interessanti documenti underground dell'epoca.
La regista filma per ore e ore (anche se il montaggio finale riduce il tutto a 100 minuti), senza soluzione di continuità, un prostituto gay di colore che, nell'arco di una notte, rievoca i momenti salienti della sua vicenda umana.
"Sono un prostituto e non provo nessuna vergogna per questo", esordisce Jason. Anche se nel finale, dopo oltre dieci ore di tour de force e un'intera bottiglia di vodka scolata da solo, indulge a inflessioni patetiche, non si tratta di un monologo lacrimevole sulle disgrazie di una vita. Piuttosto, assistiamo a una marcia forzata attraverso un'esistenza difficile ma vissuta appieno e senza rimpianti. Il protagonista sprigiona una forza militante che non attende Stonewall per difendere coming out, libertà sessuale e diritto di scegliere come impostare la propria vita.
I ricordi di Jason vanno dall'infanzia difficile in una famiglia dominata da un padre omofobo, con cui egli, vistosamente effeminato, si scontrava spesso, alle prime esperienze sessuali, ai primi rapporti a pagamento, alla vita notturna di New York, fino all'amore attuale per Richard e alle aspirazioni di attore.
Come tipico del cinema diretto, la regista non fa nulla per nascondere la presenza del mezzo cinematografico: non sospende la riprese dell'audio quando deve cambiare la bobina, lascia che la troupe e gli amici di Jason interagiscano con lui durante l'intervista e sistema la messa a fuoco senza staccare.
Una scelta estetica che in questo caso si adatta particolarmente al soggetto: Jason parla con sincerità delle sue esperienze di vita, ma è anche un attore nato e il suo racconto spesso diventa recita, interpretazione, persino scoperta messinscena. Ne esce un documento affascinante che offre uno spaccato dell'omosessualità di franchezza inedita per il cinema.