recensione di Mauro Giori
And the Oscar (for the possibly worst gay film ever) goes to...
La prossima volta che mi chiederanno di consigliare un film gay per un cineforum didattico, uno di quelli pensati per rassicurare la maggioranza eterosessuale circa il fatto che, nonostante voci contrarie circolate per secoli, gli omosessuali non sono alieni, non complottano per sovvertire la patria, non insidiano i figli della borghesia e non hanno necessariamente buon gusto, consiglierò Antarctica. Non credo infatti sia mai stato girato film gay più ansiolitico di questa perla israeliana, e cioè un film più capace di dimostrare che la vita omosessuale può essere tanto prosaica, scialba e noiosa quanto quella di qualsiasi comune inquilino del mondo. Antarctica è un Valium per qualsiasi omofobo in affanno, somministrato in dosi capaci di sedare un rinoceronte papalino.
Che gli omosessuali di questo film non siano alieni ma uomini comuni lo dimostrano le molte scene di nudo; il resto del film li rappresenta invece come troppo privi di fantasia, ingegno, cultura e interessi politici per poter tramare complotti, e come troppo pigri, complessati e autoreferenziali per arrivare anche solo a pensare di tentare di sedurre qualcuno che non sia “del giro”. Che gli omosessuali non sempre abbiano buon gusto è infine dimostrato dal fatto che uno di loro ha realizzato questo film.
A onor del vero, va riconosciuto che non è da tutti riuscire a mettere in campo una decina di personaggi senza saperne costruire uno solo che possa suscitare un interesse nello spettatore altro che ormonale, posto ovviamente che si abbia la giusta inclinazione etnica: come si è detto, non si fa mancare allo spettatore quell’abbondanza di petti e altro che normalmente si crede sufficiente a compensare non solo qualsiasi limite di un film in quanto tale, ma anche l’assenza di reale intensità delle scene erotiche stesse. Insomma, c’è quello che basta per vincere qualche dimenticabile festival gaylesbico, e niente più.
La sciatteria della fotografia, l’inconsistenza della sceneggiatura e la legnosità degli interpreti (capita se si scelgono solo in funzione del numero di addominali che sono riusciti a mettere in evidenza sottraendo ore alla lettura) sono nulla al confronto della capacità di selezionare accuratamente gli aspetti più triti e tristi di un certo milieu gay, senza offrire reali alternative. Cito solo qualche esempio a caso:
- maschioni edonisti dalla vita sessuale compulsiva che si sono fatti, letteralmente, tutta la città, salvo poi spargere calde lacrime quando si ritrovano soli al cesso la mattina dopo (ma il pianto è forse dovuto solo a sfortuna recidiva, come parrebbe suggerire il fatto che l’interessato definisce «impressionante» un pene di dimensioni normali);
- gay da rimorchio il cui repertorio retorico è inferiore a quello di una scimmia Bonobo. Dialogo d’esempio: «Ma come balli bene. Scopi anche così bene?». Oppure, la barista: «Cosa prendi?», e l’avventrice che ci prova con lei: «Un orgasmo»;
- ventenni che credono che i trentenni siano una specie a parte, anziché loro stessi di lì a qualche mese;
- trentenni che si sentono già alle soglie della pensione;
- ragazzi che sdegnano persone capaci di formulare una frase di senso compiuto solo per darsi poi al primo che capita usando il sesso per disprezzare se stessi;
- travestiti dall’aria suina (ma saranno kosher?) ingaggiati solo per riderne in momenti di comicità che in un mondo civile non troverebbero posto nemmeno in un varietà di periferia in provincia. Ma perché dovrebbe essere divertente vedere un uomo malamente truccato, in modo da scimmiottare una donna, mentre tira un uovo dalla finestra? Davvero è così difficile comprendere la differenza pur enorme che separa camp e semplice ridicolaggine?
Spesso sento evocare subitanei desideri di espatrio di fronte al declino progressivo del nostro paese. Essendo più pessimista della media, non credo che all’estero le cose possano andare poi tanto meglio. Questo film mi dà ragione, almeno relativamente a Israele: quanto a maturità sentimentale, autonomia di pensiero, scambio di ruoli fra ormoni e neuroni e, non ultimo, qualità del cinema, la vita gay di Tel Aviv rappresentata in e da questo film non sembra avere nulla di diverso da quella di Milano.
Alla fine arrivano gli alieni (giuro!) e sembra di capire che rapiranno tutti i personaggi: se è una qualche Grande Metafora, il suo senso è deceduto prematuramente assai prima del finale, nella noia generale; di certo c’è invece che nessuno sentirà la mancanza dei dipartiti.
P.S.: Se per caso di fronte ad Antarctica non vi raccapezzate poiché vedete solo cani e neve, neve e cani, è perché state guardando l’omonimo film giapponese girato venticinque anni prima. Non c’entra nulla con quello di cui abbiamo discorso, ma consideratevi fortunati e continuate con serenità: dei due state vedendo quello di gran lunga migliore.