Si stava meglio quando le web series non c'erano

7 maggio 2013

Dice l’arcigno spettatore reazionario: “Le web series sono quegli obbrobri che nascono quando ragazzi ggiovani e non particolarmente brillanti comprano una videocamera costosissima, poi copiano e incollano una trama a caso da Wikipedia e giocano a fare i cineasti affermati su Youtube – il tutto giustificandosi con l’aver frequentato uno o due corsi underground di cinema e con l’aver visto e adorato (senza saper precisare perché) l’ultimo film di questo o quel regista indipendente”.

L’arcigno spettatore reazionario ha ragione.

“The Outs” è una serie internettiana che unisce il peggio di “Sex and The City” (una blogger newyorkese dall’aspetto vagamente equino ritiene che il proprio essere sessualmente promiscua possa risultare avvincente e trasgressivo) al peggio di “Will & Grace” (la suddetta blogger vive un rapporto malato col miglior amico gay) – e poi ci aggiunge anche il peggio di “Queer as Folk” (ragazzi gay e appena post-pubescenti vogliono far derivare una qualche oscura e altissima “lezione di vita” dalla misurazione del pene incontrato nell’ultima sveltina). E va bene: a onor del vero, “Sex and The City” un “meglio” non ce l’aveva.

“The Outs” è il classico prodotto che fa sorgere spontanee la domande: ma proprio nessuno dei soggetti a vario titolo coinvolti si è reso conto dell’ignobiltà dell’insieme? Ma davvero ne vanno fieri e hanno il coraggio di incensarsi così spudoratamente (come fanno sul sito ufficiale)? Ma sul serio nessuno degli attori si è accorto di essere cane pure in foto?

La trama è la seguente: c’è gente che blatera senza dire granché, c’è gente che copula senza trasporto, talvolta gente che blatera senza dire granché mentre copula senza trasporto. Un esempio: Jack (del tutto superfluo specificare chi è) soffre ed è ubriaco, poi è ubriaco e soffre, infine soffre come un cane – o quantomeno continua a dirlo dall’inizio alla fine. Non ci è dato sapere di più. Jack fuma con un bong e, di conseguenza, infila un “fuck” ogni tre parole: è il momento “disubbidienza”. Jack guarda un quadro blu incrostato e, di conseguenza, bisbiglia «I think I’m unhappy»: è il momento “esistenzialismo tantalchilo”, ma la prospettiva di una bottarella lo rianima bruscamente dopo una dozzina di secondi.

La serie è girata a New York City, e dal tono compiaciuto di alcuni scambi si capisce che il regista/sceneggiatore/attore/produttore Adam Goldman crede fermamente di aver reso giustizia all’anima più intima e inesplorata delle vie di Brooklyn. Sul sito ufficiale, Goldman vanta anche la collaborazione di un numero sostanzioso di artisti e attività commerciali locali. In realtà tutto è talmente impersonale, privo di riferimenti spaziali e girato con così poca perizia che le puntate paiono ambientate a Bulgarograsso (e nemmeno Bulgarograsso centro).

I personaggi sciorinano perle di saggezza del calibro di: “You can’t have a girlfriend, because you can’t own someone” (smodata enfasi su own: l’attore recita la battuta come ci stesse rivelando verità ignote su cosmogonie parallele o l’ennesimo segreto di Fatima), oppure “You can’t see anything worth having, with your eyes open” (più altre banalità da bigino de “Il Piccolo Principe”).

Con un gran totale di due ore e mezza di aria strafritta, “The Outs” mette a durissima prova la fiducia nella democrazia e annienta quella riposta nelle magnifiche sorti e progressive del genere umano.

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