recensione diDaniele Cenci
Vivoalmassimo, un trascinante 'seminario sulla gioventù'
Il protagonista Filo è un acrobatico teatrante sovrappeso, quasi cieco, che balbetta e corre con alterne fortune dietro ai maschi, quasi soffocato dall’ affetto ingombrante di un’istrionica famiglia Addams della campagna umbra. Avrebbe tutti i numeri per essere emarginato a vita: eppure, eccolo rimboccarsi le maniche, risollevarsi di volta in volta e andare incontro al destino, convinto che “tuttalpiù” la cosa peggiore che potrà capitargli sarà di lasciarci le penne. Mentre gli altri ragazzini si rincorrono a guardie e ladri, il nostro stralunato monello si fa coinvolgere dai trucchi e dai travestimenti di Sonia Sorci, l’unica bambina del branco.
Circondato da un’arbasiniana, matriarcale caterva di zie, con un padre che “non vuole abbaiare” e una madre tenerissima, Filò intraprende una vera e propria corsa ad ostacoli. Un accidentato apprendistato che lo conduce a dolorose iniziazioni e alla piena consapevolezza che, nonostante tutto, è possibile amare e vivere fino in fondo. Mentre prova il Paradiso perduto, composto da Milton quando aveva ormai perso la vista, Filo riflette come quello sia “il mondo di un cieco, come me, che deve inventarsi la realtà”. Siamo tutti dei pachidermi: fatichiamo invano nel tendere le mani verso gli altri, dal momento che “ci grattiamo solo la prima pelle” senza riuscire a forare la corazza della solitudine e dell’indifferenza. Filo - è un suo chiodo fisso! - cerca di far perdere la testa ai ragazzi ‘non finocchi’, felice di dimostrargli quanto siano sballati i pregiudizi sui froci “visto che in poco tempo loro diventano disponibili a fare le stesse cose”: anche se spesso questi maschietti ‘tutti d’un pezzo’ si rivelano “fiori fragilissimi e velenosi” come la schiena nuda di un marinaio “che si torce al tramonto di una scopata infernale”, bestie troppo sincere, come “tigri selvagge”. Andare cogli uomini suscita nel ribelle Filo la sensazione di “un bruciare assoluto, istantaneo”.
S’immergerà nelle dark room in una “sinfonia di cerniere che si aprono”, in un “boschetto di uccellini impazziti” pigolanti e in cerca di un nido caldo. Più in là cogli anni, lo spettro dell’aids, “cancro del sesso e del cristianesimo”, parrà comprendere quanto di più Filo desidera e teme: la sfida e la punizione. Con la certezza che la sua intera esistenza è trascorsa rapidamente “come una notte ubriaca”. I materiali per i vari episodi di questa magmatica narrazione sono stati attinti dalla romanzesca vita di Timi, per poi essere rielaborati e trasfigurati con la splendida complicità del romano Edoardo Albinati, classe 1956, scrittore di grido (Viareggio 2004 per Svenimenti), insegnante nel carcere di Rebibbia. Più che a una simbiosi Maestro/allievo, per questa invenzione a quattro mani si potrebbe pensare ad un rapporto dinamico servo/padrone, dove però i ruoli tra l’autore affermato e il giovane esordiente sono di continuo rovesciati, e l’ ‘anziano’ Albinati si trova ad assecondare maieuticamente quel fiume in piena che è il cantastorie Timi.
Il linguaggio mimetico, carico di neologismi e apporti dialettali, riesce a catturare le bizze infantili, le ubbie giovanili, e alterna alla sentenziosità vernacolare di amici e parenti invadenti i balbettii di Filo, assetato d’amore, e i suoi sgangherati ‘pensieri spettinati’. Un’inventiva affabulatoria che sprigiona, in uno straripante ‘amarcord’, una rocambolesca epica quotidiana: il disincanto e la fatica di vivere di uno scatenato “Lazarillo de Tormes” della provincia italiana.