Questo raccontino fu scritto con ogni probabilità dal Settembrini mentre si trovava prigioniero delle carceri borboniche, ossia negli stessi anni in cui traduceva Luciano, grazie alle condizioni detentive relativamente umane che permettevano ai prigionieri politici napoletani qualche attività intellettuale preclusa invece, per esempio, ai patrioti rinchiusi nello Spielberg, come Silvio Pellico. L’autore finge che si tratti della versione dal greco d’una “favola milesia” di tale Aristeo di Megara, ma non occorre l’acume di fine grecista del Cantarella, cui si deve la prima pubblicazione del raccontino ad oltre un secolo dalla stesura, per capire che non si tratta d’una traduzione. Purtroppo la ristampa che ne ha fatto Sellerio ha rinunziato all’erudito apparato di note con cui il grande filologo dava conto del grande numero di fonti antiche riecheggiate nello scritto; in compenso, si fa per dire, rimpolpa l’esile volumetto con una postfazione scioccherella di tale Beppe Benvenuto, il quale perde il tempo a scervellarsi su come conciliare il fiero e tetragono patriota con l’inventore di questo racconto erotico: come se uno che si prende la briga di tradurre tutto Luciano di Samosata non dimostrasse già con quest’interesse un’inclinazione verso il beffardo, il lieve e il salace. Pure, c’erano beffe, levità e sali che perfino nell’Italia postrisorgimentale sembrava sconveniente far uscire dai cassetti, anzi, anche dopo, perché nemmeno il Croce, ch’ebbe per le mani il manoscritto, ritenne opportuno pubblicarlo. E dire che, tutto sommato, questa piccola fantasia bisessuale, piena di perifrasi maliziose ma non volgari, di realmente pornografico non ha quasi niente. Certe novelle del Boccaccio sono più esplicite: piuttosto, un limite nella scrittura di Settembrini sta proprio nel linguaggio figurato e nelle metafore vegetali per indicare parti od atti sessuali, che, al contrario del linguaggio boccaccesco, non si sanno salvare da un odore di leziosaggine e affettazione un po’ fastidioso. Per il resto, la vicenda dei bellissimi ateniesi Callicle e Doro, i quali dapprima s’innamorano vicendevolmente, poi sono incoraggiati anche dal loro maestro di filosofia, adepto del platonismo, col quale indulgono anche a qualche chose à trois, quindi scoprono in aggiunta le delizie dell’amore eterosessuale, rimane anocr oggi un apologo lieve, simpatico e godibile, nonostante qualche legnosità stilistica.