recensione di Mauro Giori
Ernesto
Sull'onda del successo riscosso dalla pubblicazione postuma del romanzo di Saba, avvenuta nel 1975, Salvatore Samperi (il regista di chicche quali Malizia, Scandalo, Sturmtruppen, Sturmtrupppen II e Malizia 2000) decide di portarlo sul grande schermo. I tempi sono maturi: Pasolini, Visconti, Bertolucci, tra gli altri, hanno fatto cadere tanti tabù, ci si può arrischiare ad essere espliciti senza rischiare troppo.
Samperi, da par suo, si mantiene abbastanza fedele al romanzo, che illustra in verità dignitosamente, ma introduce allo stesso tempo un'infinità di piccole modifiche (ben più del necessario) per semplificarne lo svolgimento e, qua e là, per edulcorarlo (si deve però considerare che, per facilitare la comprensibilità, rinuncia allo "schermo" dialettale di cui Saba si serviva per smorzare l'ardire del soggetto). A risentire di tutti questi rabberciamenti sono soprattutto il personaggio della madre, che perde molto del suo spessore, e quello del signor Wilder, che diventa talora una sorta di sostituto del padre di Ernesto.
Invece Martin Halm, attore tedesco subito rimpatriato e dedicatosi a un lunga carriera televisiva, disegna un Ernesto fin troppo sopra le righe, pur non facendo gran danno a quello che del resto anche nel romanzo era pur sempre uno «stupidino» molto ambiguo, continuamente oscillante tra l'innocenza e la complicità (l'Ernesto di Saba - ma non quello di Samperi - confessa alla madre: «gli sono andato incontro a più di mezza strada»).
Ma il punto dolente è senz'altro il finale: senza più la resistenza di una materia che tendeva a riportare in superficie ciò che certi interventi maldestri rischiavano di sciupare, il film casca con duplice tonfo.
Casca stilisticamente, perché Samperi scivola nel viscontianesimo più becero perdendosi tra specchi, ninnoli, pizzi e stucchi stucchevoli, appesantendosi laddove gli manca l'appoggio della levità delle pagine di Saba, anche quando l'esecuzione rimanga professionalmente dignitosa.
E casca soprattutto imprimendo alla vicenda una svolta decisamente reazionaria, appiccicando al racconto dello scrittore triestino una coda che è un crescendo di banalità e tortuosi rinnegamenti, che raggiungono il culmine del grottesco nel personaggio di Ilio. Da «piccolo mascalzone» che si offre come «incarnazione della bellezza» (insomma, un novello Tadzio), Ilio diviene così un bimbetto scipito incapricciato di Ernesto, viziato e pure col gusto del travestitismo, che dovrebbe servire a rendere più evidente il fatto che Rachele non è altro che un suo doppio, solo socialmente accettabile, tanto che un Ernesto ben disposto a imborghesirsi la preferisce allo stesso Ilio. E infatti Ilio e Rachele sono interpretati dalla stessa attrice (Lara Wendel). Ma qui ormai Saba è lontanissimo, non solo nelle pieghe seguite dal racconto di Samperi, ma anche nello stile: abbandonato lo stile asciutto del poeta triestino, Samperi preferisce impaludarsi nelle inutili derive barocche di un finale stonato.
Ora, è noto che il romanzo di Saba è rimasto incompiuto, ed è pur vero che Saba stesso andava progettando un finale nel quale l'amore di Ernesto per Ilio si sarebbe dovuto sublimare in una passione comune per la medesima donna (che infine avrebbe però dovuto sposare Ilio, non essendone la sorella, come invece nel film). Ma Saba stesso riconosceva che qualcosa lo tratteneva dal compiere il romanzo, e si potrebbe argomentare che il progettato finale normalizzante, che sarebbe stato pur autobiografico, non lo soddisfacesse: nel momento in cui in Ernesto si andava liberando di una buona parte delle proprie inibizioni, qualcosa lo tratteneva dal rinunciarvi infine con un facile colpo di penna. Ci sono punti del romanzo in cui Saba si compiace di gioire della propria liberazione, come quando, tramite la madre di Ernesto, manda «al diavolo (cioè al suo vero padre) la morale e le sue prediche inette».
Il romanzo, così come lo possiamo leggere oggi, si chiude sullo sbocciare in Ernesto della travolgente passione per Ilio: è evidentemente tutta un'altra cosa rispetto al finale di Samperi, anche senza contare le sue inutili incrostazioni (come il travestitismo di Ilio).