recensione di Mauro Giori
Reinas, il film che non mancava
Sorta di istant movie confezionato alla meno peggio per sfruttare la novità del matrimonio gay, Reinas ha tutta l’aria di essere il solito film pensato per presentare i gay, queste strane creature, alla maggioranza eterosessuale. Ovviamente dopo essere stati opportunamente ripuliti, lavati, stirati e inibiti, così che gli eterosessuali, anziché spaventarsi, possano capire che non abbiamo le corna e la coda. E per far questo si fanno concessioni più o meno consistenti agli stereotipi. Insomma, un film ansiolitico per rassicurare gli spagnoli perplessi: il matrimonio gay non affonderà la civiltà borghese. Come potrebbe, se gli omosessuali del film sono più imborghesiti dei loro genitori omofobi? E come potrebbe, se il cinema gay è il più accomodante e normalizzato che si sia mai visto?
Ne esce così un catalogo di cui possiamo andare ben poco fieri, con tre coppie pressoché identiche di giovani gay per lo più condizionati dalle rispettive madri:
1) una checca ricca sfondata, nevrotica per i suoi oggetti di lusso, uguale spiccicato alla madre (capitalista tirchia che sfrutta il mercato omosessuale con un albergo dedicato ai gay in vacanza); il suo fidanzato bambolotto, mammone, del tutto privo di personalità e incapace di gestire tanto le crisi isteriche del compagno quanto l’invadenza della madre;
2) un militante, parlamentare europeo, che tiene nascoste al fidanzato le sue scappatelle in Marocco, dove si fa tra l’altro il suo ex psicanalista; il suo fidanzato che, in compenso, poco prima del matrimonio si fa la suocera, giusto perché suo padre gli ha fatto notare che ha due belle tette (no, non è etero, e volendo nemmeno indeciso: la sceneggiatura cerca di vendere per buona una stantia trama psicanalitica per cui starebbe solo cercando un sostituto della mamma, che tra l’altro è un’avvocatessa conservatrice chiamata all’ultimo momento a celebrare le nozze);
3) il figlio del giardiniere che si deve sposare con il figlio della capa di suo padre (un’attrice ricca e famosa).
Un gran caos, nel quale il regista si perde e non riesce a guidare lo spettatore: i personaggi si abbandonano alle loro private isterie, per poi voltare pagina all’ultimo minuto (tutti, e tutti improvvisamente), come a rinsavire il giorno prima delle nozze. Tutti perdonano tutti, superano i loro problemi decennali e maturano subitamente (ma fa così bene il matrimonio?). Persino l’avvocatessa omofoba, che fino a cinque minuti prima odiava palesemente i froci ed era convinta che il figlio fosse stato traviato e condizionato dal militante, improvvisamente rivela che no, in realtà odiava solo il matrimonio e temeva che la bella storia d’amore del figlio potesse esserne rovinata. Hai voglia a far dire infine a Marisa Paredes che gli sbagliati sono loro. Lo stesso dicasi per il giardiniere omofobo, che repentinamente si rivela tenero come il pane, e per l’attrice, che accantona da un giorno all’altro l’eterno dubbio che il figlio del suo dipendente mirasse ai soldi anziché alla felicità del compagno (in effetti un po’ cesso, ma lo ammette anche lui).
E come spesso accade nei film gay per gli etero, per i gay c’è il contentino (talmente scarno da non meritare nemmeno che si scomodi il concetto di camp) che gioca sulle attrici-icone: qui si tratta delle due attrici almodovariane (Carmen Maura e Marisa Paredes) che si scambiano identità (la seconda, che interpreta effettivamente un’attrice che ha lavorato con Almodovar, viene presa per la prima). Ma da sole non bastano certo a salvare il film, né basta il bravo Lluís Homar (il prete pedofilo di La mala educatión), né Verónica Forqué, già comparsa in Kika. Un po’ pochino davvero.
Ops, quasi dimenticavo: ovviamente per i gay c’è anche il contentino di qualche maschietto in mutande. Per chi si accontenta, appunto… Personalmente, mi pare che la Spagna di Zapatero meriti (molto) di più.