recensione diMauro Giori
A Very Natural Thing: come eravamo trent'anni fa
Come si guarda con affetto a certe ingenuità della gioventù, così non si può che essere indulgenti con A Very Natural Thing, un film di cui non si possono che condividere gli assunti di fondo (sintetizzati nel titolo, che si riferisce ovviamente all’omosessualità). Christopher Larkin girò il film in economia, con attori non professionisti che, come lui stesso del resto, non fecero poi molto altro nel mondo del cinema (Robert McLane, l’interprete di David, girò un solo altro film, Up! di Russ Meyer, un paio di anni dopo). Larkin riuscì però a farsi distribuire da una compagnia fondata pochi anni prima e destinata a un futuro piuttosto brillante, la New Line Cinema. A Very Natural Thing è stato così uno dei primi film gay (non solo sull’omosessualità, ma realizzato da omosessuali per un pubblico omosessuale) a essere distribuito in modo regolare. Girato nel 1973, uscì nelle sale il 26 giugno dell’anno successivo, vigilia del quinto anniversario di Stonewall.
Larkin alterna riprese e interviste realizzate durante il Gay Pride di New York del 1973 e le vicende sentimentali romanzate di David, ventiseienne monaco spretato. David dapprima si lega a Mark, un impiegato di qualche anno più giovane, ma quando questi si stanca di lui, senza perdere troppo tempo a lagnarsi lo rimpiazza con Jason, un giovane fotografo (già sposato e separato, nonché padre) conosciuto durante il suddetto Pride.
Non c’è molto altro: si tratta di un film piuttosto zuccheroso sulle vicende amorose di queste due coppie. Ma è proprio questo che conta: in un’industria cinematografica nella quale l’amore e i sentimenti sono cosa da eterosessuali, mentre agli omosessuali competono solo piagnistei, malattie e morte, era già un atto di militanza rivendicare un vissuto quotidiano banale, per quanto orgogliosamente distinto dall’accasamento eterosessuale (che infine David rifiuta, preferendo cercare con Jason una sistemazione che riservi a entrambi una certa indipendenza). È dunque pertinente anche lo sberleffo riservato da Larkin a Love Story, che tre anni prima aveva consacrato, ad uso e consumo delle casalinghe di tutto il mondo, lo stereotipo lacrimoso dell’amore universale (eterosessuale, ovviamente) resistente anche alla morte. In tutta risposta, l’apoteosi del rapporto tra David e Jason è siglato dai due che si tuffano nudi nel mare e giocano tra le onde, una scena che richiama il celeberrimo (specie allora) Boys in the Sand (1971), uno dei primi porno gay distribuiti commercialmente. Casey Donovan vs. Ryan O’Neall: uno scontro cinefilo quanto mai significativo.
Larkin mostra tutta una serie di aspetti della realtà omosessuale che stava venendo allo scoperto dopo Stonewall e che si stava disincrostando progressivamente dell’aura di repressione e di morbosità con cui la mitologia eterosessuale (abbondantemente propagandata da Hollywood) l’aveva appestata, e racconta con semplicità ed entusiasmo la quotidianità della relazione a due, i locali gay, le saune, le sfilate dell’orgoglio omosessuale, il sesso (con abbondanti scene di nudo, tutt’altro che consuete ai tempi fuori dal circuito porno, per altro anch’esso da poco uscito alla luce del sole), ecc.
Un “come eravamo” naif da rivedere con un po’ di nostalgia, che ci viene dagli anni in cui il Pride non era solo la passeggiata facoltativa che precede l’ennesima festa in discoteca dell’anno.