recensione diMauro Giori
Una storia culturale della psicoanalisi (e dei suoi misfatti)
«L’Occidente moderno ha conosciuto due esempi di autentica e diffusa introspezione: il calvinismo e il freudismo». Con queste parole Eli Zaretsky, professore di storia presso la New York School University, inizia la sua storia culturale della psicoanalisi. Il parallelismo tra psicoanalisi e Riforma verrà ripreso spesso, anche un po’ ossessivamente, nel corso del lavoro, ma si presta a riassumere efficacemente il paradosso che Zaretsky cerca di approfondire nel suo lavoro, e cioè come abbia potuto una disciplina nata con potenziali rivoluzionari (e, per certi aspetti, libertari) – ciò che Zaretsky definisce “freudismo carismatico” – trasformarsi poi in una forza al contrario oppressiva e reazionaria, e spesso per quelle stesse compagini sociali alla cui affermazione aveva inizialmente contribuito (pur con molte ambivalenze), come nel caso delle donne o degli omosessuali, usati a più riprese come cartina di tornasole per valutare le oscillazioni del “carisma” della psicoanalisi.
Era da molto tempo che si attendeva una storia culturale della psicoanalisi di ampio respiro, una storia cioè che non offrisse un semplice elenco del telefono di stampo manualistico ma che si interrogasse sugli intrecci più profondi e sulle influenze reciproche che la disciplina allaccia con la dimensione politica, sociale, economica e culturale dei suoi anni, e che tentasse un bilancio non parziale di ciò che la psicoanalisi ha rappresentato per la cultura del Novecento. La si attendeva soprattutto in Italia, dove la psicoanalisi tarda ancora a essere sottoposta alla necessaria revisione critica che altrove l’ha riguardata, quando non travolta.
Talora con rapidità inevitabile (già così lo studio è ponderoso, ancorché leggibile), Zaretsky ripercorre le tappe dello sviluppo della psicoanalisi dalla sua nascita ai giorni nostri. Zaretsky non pecca certo di reticenza: ricorda le vittime di terapie interminabili e sconsiderate, sottolinea gli aspetti più inquietanti di personalità fasulle come Bettelheim o di terapeuti dai metodi (e dalle teorie) alquanto discutibili come Lacan, il progressivo irrigidirsi delle teorie in un sapere arrogante e settario, incapace di rinnovarsi e di ammettere repliche. Zaretsky è anche immune alle mitizzazioni di Freud, di cui rimarca ad esempio le convinzioni ottocentesche in materia di genere sessuale.
Zaretsky non può quindi essere accusato di partigianeria quando descrive il contributo che la psicoanalisi inizialmente dà all’affermazione di un nuovo modello di famiglia (quella “freudiano-fordista”), nata sulle ceneri di quella vittoriana, e a una rivalutazione dell’individualità che ne fa un «agente di defamiliarizzazione» (p. 164). Zaretsky sottolinea anche come alcuni concetti psicoanalitici si siano prestati a sostenere inizialmente le rivendicazioni delle donne e degli omosessuali. Comunque, fino almeno agli anni Quaranta la psicoanalisi contribuisce complessivamente non poco all’apertura d’idee che circonda le discussioni sulla sessualità.
Nel secondo dopoguerra, tuttavia, il freudismo statunitense – fino a quel momento del tutto secondario – è protagonista di una svolta reazionaria che influisce sulla situazione della disciplina nel resto del mondo. Decisiva, in particolare, risulta l’alleanza con la psichiatria: l’istituzionalizzazione (anche accademica) della disciplina la trasforma in una forza conservatrice che si ritrova dalla parte del potere e pertanto consacrata a «santificare nuovamente la famiglia eterosessuale» (p. 314), in lotta crescente con tutte quelle forze che, soprattutto nel decennio successivo, proporranno ideali e modelli alternativi. La psicoanalisi, inoltre, si presta allora a fare da strumento di controllo sociale, offrendo concetti facili da massificare, e con il suo accento sui bisogni del singolo individuo risulta persino funzionale ad assecondare lo sviluppo della società dei consumi.
Negli anni Sessanta, mentre la psicoanalisi di sinistra e la riscoperta del “Freud demonico” (p. 361) rappresentano l’ultimo tentativo di assolvere un ruolo “carismatico”, il colpo di coda del lacanismo non basta a salvare una disciplina progressivamente fiaccata da una crisi di vocazioni seconda solo a quella della Chiesa cattolica e, proprio come quest’ultima, «spiazzata dalle forze di democratizzazione» (p. 351) incarnate nelle esperienze della rivoluzione sessuale, della controcultura, del femminismo e del movimento gay.