recensione di Mauro Giori
L'altra Morte a Venezia...
Mario e il mago è probabilmente il lavoro di Mann più vicino a La morte a Venezia, di cui pare quasi un rifacimento per le molte coincidenze strutturali e tematiche e il comune autobiografismo dei soggetti: entrambi questi romanzi brevi nascono da soggiorni di vacanza in Italia e in tutti e due i casi Mann stesso si è compiaciuto di dichiarare di aver inventato solo la morte dei rispettivi protagonisti, ai quali ha concesso numerosi prestiti personali.
I due testi condividono anche l’interesse del protagonista per quello che in Mario e il mago viene definito l’«elemento maschile autoctono», senza contare che al mago viene attribuita implicitamente un’attrazione nei confronti di Mario. Appare anzi condivisibile l’opinione di George Bridges (si veda il n. 64 di «The German Quarterly»), secondo il quale, sdoppiando nel mago e nel protagonista le due nature di Aschenbach (quella dionisiaca che lo induce a provare attrazione per Tadzio e quella borghese che lo porta a sublimare nella scrittura), Mann può esplicitare la seduzione omosessuale e radicalizzarne la condanna. Di certo vi è che quest’ultima è brutale, sia per la sua realizzazione figurata nella soppressione del mago da parte di Mario, sia per il lessico ingiurioso accuratamente scelto dal narratore. Questi indugia dapprima sulla «scurrile e triste unione delle labbra di Mario con la carne ripugnante offerta alla sua tenerezza»; quindi sul gesto con il quale Mario si pulisce le «labbra oltraggiate» con quelle mani dalle quali – aveva notato prima il narratore – «ci si faceva servire volentieri»; infine descrive con allusivo puntiglio l’arma del delitto, un «piccolo ordigno ottuso che aveva appena la forma di una pistola e che gli [a Mario] pendeva dalla mano». Né si può tacere l’approvazione che il narratore ostenta nel momento in cui descrive l’omicidio come un «finale liberatore».
I problemi aumentano soltanto se si considera che Mario e il mago è stato sempre letto come un’allegoria del fascismo, rilanciando l’associazione del nazifascismo con l’omosessualità sostenuta per lunghi decenni da una trista tradizione non solo letteraria. E infatti la «danza orgiastica» nella quale culmina lo spettacolo del mago (che fa le veci di Mussolini) sfocia in «una tal quale depravazione, un tal quale disordine tardonotturno negli animi, un ebbro disfacimento di quelle forze critiche, di resistenza» che porta gli spettatori fra le braccia del mago, e cioè, fuor di metafora, è proprio la seduzione erotica a dare efficacia alle malie della propaganda fascista, giungendo al suo culmine nell’ultimo numero dello spettacolo, vale a dire appunto la seduzione di Mario.
Visconti ne trasse nel 1951 un singolare spettacolo per il teatro alla Scala (andato però in scena solo nella stagione 1955-1956): chi fosse interessato può trovarne un commento in uno dei miei lavori sul regista.