Il sabba

23 maggio 2013

Passato il trentesimo anno, Sachs decise di scrivere una specie di confessione, una storia interiore dove le vicende autobiografiche sono ripercorse con uno sguardo in apparenza critico per riconsiderare e condannare o giustificare scelte di vita e artistiche. Si sa che alle autobiografie non bisogna prestare troppa fede; ma secondo me agli epigoni più o meno velleitarî di Sant’Agostino ne va prestata ancor meno: è troppo forte la tendenza naturale ad autoassolversi fra le righe mentre pare che ci si stia affondando il coltello nelle carni. Sachs passò l’intera sua breve vita fra slanci e pentimenti: uomo fisicamente sgraziato ma brillante e capace di sedurre, sognatore iperbolico affatto privo del minimo buonsenso che consenta di non ruzzolare troppo rovinosamente dopo essersi troppo innalzati da terra, desideroso d’amare e d’essere amato ma egolatrico e incostante, capace d’entusiasmi estetici fiammeggianti eppure incapace di dedicarsi all’arte con serietà e perseveranza, egli alternò fasi di sconclusionata erranza tra ambienti culturali, scontento alla fine di tutti, ed abiezioni fisiche e morali che ancor giovane lo ridussero a malpartito. Quando scrisse Il Sabba che, nonostante la veste retoricamente tornita, mostra tutte le discontinuità d’una scrittura istintivamente febbrile, egli era nel momento del pentimento ed anche, va riconosciuto, del vittimismo: insistendo sulle debolezze della carne, sull’inclinazione ad un’invitta prodigalità, sull’ingenuità giovanile nell’affidarsi di volta in volta a Cocteau (dipinto come una sorta di ciarlatano), a Maritain (viceversa mai biasimato e disprezzato) e ad altri ancora, in fondo Sachs ostenta continuamente un candore, una purezza di fondo da vaso di coccio fra vasi di ferro, alla quale, in realtà, le vicende stesse della sua vita qual egli le narra dovrebbero indurre a non credere più di tanto. Se si fosse limitato a raccontarsi e a raccontare le molte persone e i luoghi che aveva conosciuto usando un tono più asciutto e più lieve si riuscirebbe a provare più simpatia per lui e a ritenere più fededegni i ritratti altrui che tratteggia: così, viceversa, si ha l’impressione di entrare in uno strano capitolo delle colpe, dove picchiandosi il petto si sospira su d’un passato caotico cercando nel contempo di presentarsi nel migliore dei modi; e sorge il dubbio che la vittima non sia poi tanto vittima e i cattivi non fossero poi tanto cattivi. La scrittura riflette quest’ondeggiamento ambiguo alternando momento di freschezza e icasticità a digressioni morali o autoanalitiche che con una certa frequenza scadono nella prolissità. Al documento umano interessante, dunque, non corrisponde sempre una sufficiente tenuta stilistica. Dommage.
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Jean CocteauDiario di uno sconosciutomiscellanea1988

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