In realtà si tratta d’una rilettura, ma la volta precedente il libro mi era stato prestato, e ne avevo dimenticati nel frattempo parecchi particolari. Credo che Hollinghurst sia uno dei più intensi poeti del corpo maschile che mi sia mai capitato di leggere, tanto più in un romanzo come questo, dove non esiste nemmeno un personaggio femminile: si respirano in certi suoi passi tutta la bellezza inebriante della virilità e una vertigine erotica, spesso destata con brevi pennellate sapienti, che incantano e fanno volare la fantasia. Ma se si trattasse di ciò solo, egli resterebbe in fondo un bravo autore erotico; invece quest’erotismo genuino, a tratti quasi sfacciato, si mescola disinvolto con l’amore per la rievocazione storica d’un mondo omosessuale inglese ormai scomparso, con la descrizione, venata d’un’ironia sottilmente e perfidamente britannica, del mondo gay degli anni Settanta e Ottanta, e con una condanna dell’omofobia in ogni sua forma, che risulta tanto più energica in quanto Hollinghurst, con deliziosa spezzatura, si guarda sempre dal cadere nella cupezza dei predicatori travestiti da letterati. E poi il romanzo ci regala almeno tre figure immortali: il medico James, adoratore di Ronald Firbank, con vezzi linguistici ove sopravvivono tracce dell'antica Bloomsbury, il vecchio Lord Nantwich, figura piena di chiaroscuri, e soprattutto d’ombre, dietro una facciata di senile svagatezza, e soprattutto il protagonista, che dietro l’aspetto del giovane ricco, bello e blasé, cacciatore infaticabile della miglior selvaggina maschile, cela un animo tenero e candido che lo rende subito dannatamente simpatico: e i suoi duetti col nipotino Rupert, bambino di sei anni già terribilmente intelligente e snob, sono da antologia.