Ho paura torero

26 maggio 2013

A me i froci agghindati con piume e falpalà sono sempre sembrati così lontani dal mio mondo reale e fantastico (oltre che dal mio modo di sentirmi e di essere gay) che la Fatina dell’angolo nella realtà non la degnerei d’un’occhiata: e nella finzione, se debbo essere sincero, mi resta distante dal cuore quanto il Cile dove si ambienta il romanzo. L’unica scena del libro che mi abbia emotivamente coinvolto è quella, brevissima, in cui il cadetto delicatino dell’Accademia Militare cilena scherza con una delle guardie del corpo di Pinochet prima di allontanarsi con lui: Lemebel la segue con lo sguardo disgustato di Pinochet stesso, che vede i due dalla terrazza della sua villa di campagna; ma in quel concerto fugace di sguardi e sorrisi, nelle stoffe delle divise che si toccano, nel passo leggero e festoso dei due giovani che si allontanano insieme ho avvertito più intensità, sincerità e poesia omoerotica che in tutto il resto del libro, che pure di poesia ne vorrebbe far molta.
La Fatina in realtà è un vecchio travestito (vecchio per modo di dire, in verità: si tratta d’un quarantenne; ma ormai è un rudere) tenero e sentimentale, anche se capace di estrema forza d’animo, che sa rendere bello, grazie ad una fantasia scatenata, ad una sensibilità barocca e ad una parlantina iperbolica, ogni momento quantunque grigio e squallido della vita; e cade come una pera cotta ai piedi di Carlos, uno studente carino e simpatico che gli diverrà amico, ottendendo peraltro in cambio che la casa insospettabile della Fatina diventi occasionale rifugio dei terroristi del suo gruppo che lottano contro la dittatura militare, e deposito per i loro materiali più o meno pericolosi.
Trovo che Carlos e i suoi compari alla fine risultino figure meno positive di quel che Lemebel vorrebbe: anche se salvano il protagonista dalle probabili vendette della polizia cilena, in fondo nei guai l’hanno messo loro, piombando nella vita d’un poveraccio che aveva trovato un modo di tirare avanti senza nascondersi, in paese greve di omofobia, con un modesto lavoro di ricamatore, lontano da un impegno politico che sarebbe in ogni caso faccenda troppo pesante per lui. Lemebel ci guida attraverso una specie di “presa di coscienza” della Fatina, che un po’ alla volta diventa consapevole degli orrori della dittatura: come se la lotta di quest’omosessuale senza mezzi e senza cultura per ricavarsi un cantuccio e un briciolo di rispetto nell’ambiente del suo vicolo, in un mondo che a quelli come lui riserva solo persecuzioni e disprezzo, non fosse già qualcosa di abbastanza pesante per le sue povere spalle.
Alle vicende di questi due personaggi anonimi si contrappongono quelle del generale e della moglie: della moglie, soprattutto, che riempie pagine di monologhi, spesso molto divertenti, da borghesuccia costantemente incerta tra il ruolo da First Lady e quello di comare pettegola che in casa spadroneggia su d’un marito cupo, abulico e taciturno, manifestando peraltro inattesi sprazzi di buonsenso che egli viceversa non possiede; Pinochet, dal canto suo, è in effetti un vecchio molto solo (ma intuiamo che è un uomo solo da sempre), stupido e rancoroso, sempre assonnato o frastornato, reso torpido dalle sue ossessioni, dai suoi pregiudizî vieti e, molto probabilmente, anche da un’incipiente demenza senile.
Le pagine dedicate alla Fatina e a Carlos sono caratterizzate da una scrittura molto più immaginosa, che scintilla anche di aggettivi spericolati di novello conio; quelle dove compaiono Pinochet e la moglie sono stilisticamente meno guizzanti, ma acquistano leggerezza per il tono di satira di cui sono cosparse. Lo stile, tuttavia, non è stato sufficiente a farmi innamorare davvero di quest’opera. Forse tre stelle sono poche, ma quattro mi sembravano troppe.
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