Nella casa del pianista

31 maggio 2013

Confesso che prima di leggere questo libro conoscevo assai poco del pianista Youri Egorov (la grafia del nome, che andrebbe traslitterato Jurij, è quella che egli stesso preferì sempre usare dopo essere fuggito dall'URSS), per me poco più che un nome, anche perché non possiedo dischi suoi e In Italia durante la sua breve carriera non fu famoso come in altri paesi: questa biografia romanzata perciò non solo è stata per me una lettura molto piacevole e a tratti anche commovente, ma mi ha permesso altresì di conoscere un'interessante figura di artista.

Egorov si sottrasse con la fuga dal regime sovietico a soli ventidue anni accorgendosi che, in quanto gay, sotto quel dispotismo tetro ed oppressivo avrebbe dovuto sopportare una vita ancora più dura di tanti altri suoi connazionali: in realtà era russo fino al midollo, e in Olanda, dove visse per il resto dei suoi anni, si sentì sempre un po' estraneo, benché vi avesse trovato un compagno, l'architetto Jan Brouwer, e un gruppo di amici, tra i quali l'autore di questo libro e sua moglie; forse anche da ciò dipese quel certo spirito autodistruttivo che gettava un'ombra sulla vita del giovane pianista e lo aduggiava con un forte senso di sfiducia in sé. D'altra parte, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta fioriva l'età della liberazione gay, in Olanda come negli Stati Uniti: era un periodo di feste rese lievi dal fluire di sostanze inebrianti, di sesso promiscuo e senza pensieri; a Youri bastava indossare un giubbotto di pelle e calarsi in qualche luogo deputato: i bei ragazzi non gli mancavano mai. Le pagine che Brokken dedica a quegli anni un po’ leggeri e incoscienti, ma anche tanto pieni di fervore creativo, alla luce di quel che n’è seguito si velano d’un’opacità mista di tristezza e nostalgia: come cantavano allora i Cure, we all look so perfect, as we fall down in an electric glare, ed anche Egorov e, poco dopo, il suo compagno furono falciati dall’AIDS: Youri morì a soli trentatré anni come Dinu Lipatti, cui stilisticamente era stato più volte accostato.

Ma il libro non è solo storia d’una vita, d’una Stimmung, d’un’amicizia: è anche un libro sulla musica, quella musica che per il pianista russo era tutto, ed echeggiava in casa sua registrata quando taceva il suo pianoforte. Qui la prosa dell’autore, sempre molto limpida e semplice, non può che ricordare emozioni provate ai concerti dell’amico. Se la scrittura ecfrastica può dare in qualche modo un concetto delle arti figurative, infatti, l’evocazione d’un momento musicale, anche se intensa e poetica, riesce a trasmettere soltanto un’eco lontana dell’evento: la diffidenza di grandissimi come Busoni e Celibidache per la registrazione attesta l’unicità irripetibile dell’epifania del suono, che dopotutto, una volta captato grazie ai prodigi della tecnica, rispetto al suo fiorire nella sala da concerto rimane pur sempre "sogno di un'ombra" (eppure già quest’ombra è qualcosa di miracoloso: che cosa non daremmo per sentire come sonavano o dirigevano Bach, Monteverdi, Mozart o Beethoven?); ma se non potremo mai vivere in noi l’esperienza dell’Egorov concertista come la sente l’autore nel richiamarla alla memoria, e ce ne possiamo soltanto fare un’idea dalle registrazioni (e ne ho scovate di magnifiche in rete), rimane intatta la suggestione che crea nel lettore il ricordo d’un uomo tanto innamorato della musica da restarle aggrappato anche nelle fasi più cupe della malattia, quando ormai dare un concerto costituiva un supplizio per il suo corpo piagato. Nel momento in cui Egorov non fu più in grado di suonare nemmeno privatamente, cessò in lui anche la volontà di vivere. Davvero per lui la musica era la vita.

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