recensione diGiulio Verdi
Casalinghe disperate... in roulotte
6 aprile 1998: Tammy Wynette, la First Lady della musica country, muore prematuramente e in circostanze oscure. La notizia raggiunge un trailer park texano, dove le sorelle LaVonda e LaTrelle la accolgono incredule insieme all’accanita fumatrice zia Sissy e alla vicina di roulotte nauseata dal marito, Noleta. Il pensiero va subito a Earl “Brother Boy”, fratello di LaVonda e LaTrelle, drag queen e internato dalla madre Peggy in una clinica per la deomosessualizzazione da ventitré anni. Tammy Wynette è la sua musa e ragione di vita, oltre che l’unico ostacolo alla sua guarigione: tutte le sere indossa una bella parrucca bionda e canta una struggente canzone wynettiana per gli altri pazienti, sotto lo sguardo impietrito della dottoressa Eve (il cui obiettivo ultimo è essere ospitata all’Oprah Winfrey Show per esporre le sue teorie). Nel frattempo, la mater familias Peggy sta recuperando l’amica e cantante da bar Bitsy Mae in un penitenziario, dove ha appena finito di scontare una lunga pena per incendio doloso. A Los Angeles il figlio di LaTrelle, Ty, sta finalmente trovando il coraggio di fare coming out con amici e parenti, con l’aiuto di una compagnia teatrale che lo coinvolge in uno spettacolo en déshabillé.
Spassoso ritratto della vita gay nel profondo Sud degli Stati Uniti, Sordid Lives: The Series fa da prequel all’omonimo film che il suo regista, Del Shores, aveva diretto nel 2000. Film che è molto inferiore alla serie televisiva: il cast è praticamente lo stesso, ma la forma episodica fa guadagnare solidità alla trama e credibilità ai personaggi, oltre a far esplodere l'estetica camp che caratterizza tutti i lavori del regista.
Proprio il cast è il punto di forza della serie: particolarmente in forma è Leslie Jordan nella sua interpretazione sopra le righe di Brother Boy (molti lo ricorderanno in Will & Grace), mentre Rue McClanahan (la Blanche di Golden Girls) appare qui nel suo ultimo ruolo importante, quello della matrona Peggy.
Fortunatissima è anche la scelta di Olivia Newton-John nel ruolo di Bitsy Mae: il pubblico omosessuale e non statunitense l’ha quasi sicuramente conosciuta da “Physical” e “Grease” in poi, ma la cantante australiana aveva già alle spalle dieci anni di onorata carriera country. Qui Newton-John esibisce una parrucca che sembra recuperata da un bidone dell’umido, una malsana abitudine di masticare a bocca aperta e un finto accento white trash, risultando molto credibile quando canta che “Gesù magari un giorno mi salverà/ Ma di sicuro Jack Daniels mi salverà questa sera” o quando apostrofa l’ex marito violento nell’irresistibile “You Look Like a Dick to Me”. Verso il finale della prima stagione, il suo personaggio vive anche un’inaspettata svolta lesbica.
Tra le figure secondarie, il pubblico televisivo ricorderà Caroline Rhea in Sabrina, vita da strega: qui interpreta Noleta, l’anti-Lolita locale, che tenta in tutti i modi di sedurre un marito impotente, con protesi gambali, che non la vuole più e preferisce ravvivare l’estinto fuoco di distinte signore di terza età. Chi ha visto Donnie Darko riconoscerà anche Beth Grant, qui nel ruolo di Sissy.
Ultima ma non per ordine di importanza, c’è Georgette Jones: si tratta dell’unica figlia che Tammy Wynette ebbe con George Jones, dominatore quasi incontrastato della scena musicale di Nashville nel secondo dopoguerra. Qui la Jones si presta con molta autoironia a interpretare il ruolo del fantasma di sua madre Tammy (a cui effettivamente somiglia molto) e incoraggia Brother Boy a portare avanti la sua preziosa opera di diffusione del verbo country, con battute che talvolta sconfinano in un irriverente oltraggio alla memoria. Le sue interazioni con Brother Boy sono una riflessione tanto stringata quanto efficace sul rapporto della comunità gay con le sue cosiddette “icone”. Wynette era una di quelle lusingate dal seguito omosessuale e liete di sostenere la causa, per quanto possibile: qui raccoglie un omaggio postumo e toccante, pur entro i confini della commedia.
Unica nota stonata sono gli attori che interpretano Ty e il di lui fidanzato, Jacob: due manichini senz’arte né parte, assunti unicamente per fare sfoggio di un’agghiacciante ipertrofia muscolare e di un’altrettanto volgare abbronzatura da lampada, peraltro chiamati a dar vita alla sottotrama più prevedibile della serie. Unico risvolto vagamente accettabile della loro vicenda è l’incontro con l’anziano signore omosessuale della porta accanto, che li sprona a essere coraggiosi almeno un decimo di quanto lo fu lui in tempi meno facili.
Per gli appassionati di musica country, un altro elemento di grande interesse è senz’altro la colonna sonora: Olivia Newton-John non ha mai brillato per estensione vocale, ma la verve con cui intona i suoi quattro o cinque motivetti sboccati è memorabile (in tutta onestà anche più memorabile dei suoi album country, che ebbero comunque un enorme successo di pubblico a metà anni ‘70). Georgette Jones reinterpreta tre canzoni della madre, per l’occasione: se non riesce a piegare le note al proprio drammatico volere come faceva l’illustre genitrice, quantomeno dimostra di apprezzare l’intento di Shores.