recensione diMauro Giori
Orphan Black
Prodotta dalla BBC America, Orphan Black è un ibrido ideale fra le interminabili stagioni americane e quelle talora sin troppo fulminanti tipiche delle serie inglesi: dieci puntate costruite senza prolissità e rette con sorprendente bravura da Tatiana Maslany, impegnata in un tour de force che la vede nei panni di sei cloni creati in laboratorio (per ragioni da chiarire). I quali, per complicare ulteriormente le cose, talora si scambiano fra loro i ruoli.
A coadiuvare la protagonista è un fratello gay effeminato, marchettaro, mezzo criminale, con un gusto spiccato per trucco, arte e vestiti. Insomma, un personaggio di cui vent’anni fa ci saremmo disperati. Certo Felix ha anche una personalità forte, è affidabile, generoso, moderatamente altruista. Il fatto importante, però, è che queste ultime non sono prerogative compensative rispetto alle prime. Felix non è un eccellente deuteragonista perché è buono nonostante sia anche effeminato, e cioè non è una brava persona benché gay. Semmai, deve le sue qualità proprio all’essere gay, poiché è per questo che è divenuto quell’individuo incapace di compromessi che, in quanto tale, è l’ideale, impavido e incorruttibile aiutante dei vari cloni in perenne difficoltà. Felix rappresenta il valore della diversità di fronte alla linea inquietante che regge la serie, e cioè il tentativo di replicare lo stesso. Ne consegue che anche la prima serie di attributi a rischio di stereotipo risulta non solo affrancata da qualsiasi giudizio negativo, ma anche investita di valore, in quanto si tratta di aspetti coerenti di una personalità che non chiede permessi per essere ciò che è. Felix è semplicemente se stesso indipendentemente da chi ha di fronte, si tratti di un nuovo clone scoperto dalla sorella o del timido impiegato dell’obitorio (personaggio inconsueto anche dopo Six Feet Under) che si porterà a letto.
Impossibile non farne un piccolo eroe quando, trovandosi davanti tutto il quartiere schierato contro Alison (il clone casalingo), si presenta senza remore come «Felix, gay friend» (del resto, in una puntata precedente, ai figli in età scolare della donna aveva persino insegnato la sottile arte del travestimento). Per evitare di esasperare gli animi, Alison corregge in fretta: «Acting coach». Il prete che guida il gruppo, spaesato, esibisce un’ansiosa e paternalistica accettazione: «That’s… that’s… perfectly fine here». Felix, per nulla a disagio, lo sfida con sarcasmo: «Which one?».
Lavori come questo ci danno la misura della terra riconquistata all’universo eterossessionato in cui ci eravamo trovati a nascere, proprio grazie all’intelligenza con la quale si attribuiscono nuovi significati a vecchi stereotipi, di modo che risultino non meno militanti negli intenti e nelle potenzialità di quanto possono esserlo personaggi estranei ai luoghi comuni, in quanto tali non sufficientemente ansiolitici per il pubblico generalista.
E un personaggio simile comunque non ci viene fatto mancare: come non bastasse Felix, infatti, uno dei cloni è una biologa lesbica, dolce, affettuosa ed estremamente brillante, tutto all’opposto delle butch manesche o delle bambolone per etero compulsivi che hanno popolato l’immaginario per tanti anni. Senza contare che si innamora di una collega ed è anche ricambiata, sia pure dopo alcune peripezie. O almeno questo è il punto in cui si ferma la prima stagione.