recensione diMauro Giori
The History Boys
«L’erotismo, coperto o dichiarato, fantasticato o messo in atto, è intrecciato all’insegnamento, alla fenomenologia del rapporto maestro-allievo. Questo fatto elementare è stato banalizzato con la fissazione sulle molestie sessuali. Ma resta centrale. E come potrebbe essere altrimenti?». Così George Steiner nelle sue Norton Lectures del 2001-2002 pubblicate col titolo La lezione dei maestri, un’affascinante affabulazione su 2500 anni di magistero. The History Boys ne rappresenta una sorta di ideale contraltare di finzione, nella forma di un dramma teatrale scritto da Alan Bennett nel 2004, poi di un film per mano di Nicholas Hytner, che di Bennett aveva già adattato La pazzia di Re Giorgio (1994).
Bennett, tra l’altro e in chiave autobiografica, ricama infatti sottili variazioni sull’intreccio non facile tra insegnamento e amore, fascinazione del sapere ed eros, sulla falsariga di un sempiterno modello socratico. L’autore lo beffeggia quando viene accampato pretestuosamente da Hector, docente-istrione dolcemente malinconico e in fondo buffo, ma gli riconosce un fondamento nel momento in cui viene approvato alla fine da Posner, senza contare che si era rivelato comune anche al più legnoso Irwin, appassionato alfiere di un ambizioso cinismo di stampo squisitamente machiavellico. L’investimento erotico viene così percorso in tutta la sua ampia declinazione, dalla sublimazione nella passione (del sapere e della sua trasmissione) alla sua dimensione più terrena, assumendo accenti ora farseschi ora più dolenti.
La chiave per decifrare la delicata costruzione di Bennett sta in una battuta della professoressa di storia, femminista in ritardo: «One of the hardest things for boys to learn is that a teacher is human». È in fondo su questo assunto, così semplice e così vero, che si basa la forza del film e della costruzione dei suoi personaggi, sia degli studenti, sia dei professori Hector e Irwin, antagonisti solo in apparenza.
Infatti, invece di creare simbolici contrasti generazionali, odi fratricidi fra pari, avversioni esasperate per questo o quel docente, com’è normale in questi racconti scolastici e d’adolescenza, e come accade peraltro di solito nell’esperienza di tutti, Bennett gioca una carta insolita: quella di costruire una comunità insospettabilmente armoniosa, unita, collaborativa, dove vi sono solo deuteragonisti e nessun vero antagonista (nemmeno il preside, un po’ triviale e un po’ omofobo ma in fondo recuperabile). È una carta rischiosa perché senza contrasti accesi è difficile mantenere l’interesse e sviluppare un racconto coinvolgente, e per compensare occorrono molte doti. Bennett ne possiede una buona parte, perché se qua e là il film si rilassa un po’ è solo per meglio risvegliarsi, con un’arguzia improvvisa (impagabile la descrizione della scultura di Michelangelo) o un assolo dell’adorabile Richard Griffiths, senza sbrodolare mai nella retorica più scadente e sia pure con l’impressione di navigare un po’ a vista in un mare di nostalgia, mancando una progressione forte che vada oltre l’inevitabile avvicinarsi di quel nulla che è tipicamente il “dopo” adulto di ogni Bildungsroman.
Alla fine è dunque minima la differenza fra i toccamenti rubati con ingenuità da Hector, la tenera dichiarazione d’amore di Posner sulle note di Bewitched, Bothered and Bewildered di Rodgers & Hart, e un Irwin incapace di negarsi alla seduzione del suo allievo prediletto.
Il finale è dolente quanto basta, ma è riscattato da Posner/Bennett che raccoglie il testimone di chi gli ha trasmesso insegnamenti di vita oltreché nozioni: sua è la difesa di una certa arte di insegnare, come sua era stata quella del suo amore per un compagno: «Who says I want it to pass?», ripete a più riprese a chi cerca di consolarlo assicurando che si tratta solo di una fase.