Osare o non osare...

26 luglio 2013

Il problema di Dare è che, a dispetto del titolo, tutto fa tranne che osare. I suoi personaggi sono risaputi fino alla noia e offrono allo spettatore esattamente quello che ci si può aspettare da un film adolescenziale di ambientazione scolastica. Ovvero il bulletto biondo ricco piacente ignorante (Johnny); la racchia secchia medio-borghese (Alexa); il rospo gay piccolo-borghese (Ben). Se si deve creare dramma, il mondo liceale si costruisce sempre così, opponendo bellezza e bruttezza e associando alla prima un’autonoma forza vitale, sufficiente ad assicurare privilegi e successo (a che pro dunque slogarsi il cervello sui libri?), alla seconda una cultura dalla finalità puramente revanscista (i brutti studiano per riscattarsi e cercare di sottrarre ai belli qualcosa della loro fortuna, ma altrimenti ne farebbero volentieri a meno).

Tanta visione del mondo sta alla base anche di Dare, che per meglio dimostrare il teorema commuta poi i fattori, con una simmetria talmente pulita da rendere l’inversione scontata quanto la situazione di partenza. Che dietro la perfezione si possa nascondere il fallimento umano, e dietro la marginalità un desiderio di riscatto, non è infatti una di quelle cose che sconvolgono la vita quando vengono allo scoperto.

E dunque poco ci sorprendiamo quando Alexa, per sedurre Johnny, si rimette in ordine e diventa una bomba sexy semplicemente aggiustandosi i capelli. E non ci sorprendiamo nemmeno quando Ben, rivelando di essere meno scorfano di quel che sembrava, improvvisamente si fa audace e riesce a sedurre il medesimo Johnny in piscina (approfittando di un sorso di alcol e di una malinconica depressione prodotta nel biondo fanciullo da una famiglia sfasciata, aggravata da una psicoanalista invadente). Potenza del cinema hollywoodiano, dove il diaframma che separa belli e brutti è in genere una questione di semplici accessori (basta togliersi gli occhiali e mettersi abiti del proprio secolo, o eventualmente toglierseli, e il gioco è fatto).

Ci si ritrova così con uno strano triangolo che va presto alla deriva, infiltrando nella commedia una venatura di malessere. Inconsueto, in effetti, ma basato sul nulla, e cioè sul mero desiderio carnale postpubere e sull’ambizione di essere apprezzati per ciò che si è. Come dire, la più grande ovvietà della vita e il più infantile dramma psicologico che si possa immaginare. E così i tre si scambiano le parti, poiché sistematicamente in questi film i brutti, apprezzati solo per la loro mente, desiderano essere attraenti e sedurre in termini puramente sessuali, mentre i belli, stanchi di essere solo godemiché in formato naturale, vorrebbero essere apprezzati anche per quello che pure non hanno, non avendo badato a coltivare altro che l’aspetto (e in questi film capita anche spesso che gli attori di teatro – gay – siano isterici e sentenziosi, come il povero Alan Cumming, il quale si presta a mitragliare luoghi comuni sul palcoscenico e la vita in un cameo che non viene voglia di rivedere). Tuttavia è un dato oggettivo che per formare una personalità interessante occorra più tempo che per farsi crescere le poppe in palestre pregne di umori malsani, sicché ad Alexa e a Ben la conversione riesce meglio che a Johnny. Il quale, ci viene detto, finisce infatti in una clinica, trovando poi il riscatto per mezzo del teatro. Col tempo, appunto.

Il finale è malinconico quanto basta a lasciare un piccolo segno ma, diversamente da quanto insegna la cultura cattolica, il modo in cui si muore non fa la differenza. Pentirsi e inseguire un riscatto alla fine potrà essere consolante per coscienze con qualche trascorso accidentato, ma non funziona neanche al cinema.

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