recensione diMauro Giori
Meglio soli che accompagnati a uno psicopatico
Che la fine di una relazione possa lasciare un po’ sconvolti fa parte della norma delle cose. Che si prenda a diffidare del prossimo anche. Fantasticare di abbattere l’ex a martellate è forse un poco meno consueto, ma perché negarsi una soddisfazione immaginaria in fondo innocua? Sono cose che aiutano a tirare avanti.
La sostanziale efficacia di Solo deriva dal prendere spunto da queste esperienze universalmente condivise per spingerle fino alla paranoia, magnificata dalla sostanziale concentrazione aristotelica dell’azione (con l’eccezione di qualche flashback) in una sola notte, all’interno di un appartamento da cui sembra impossibile uscire, con ellissi temporali quasi inconsistenti. Il tutto sulla scorta degli insegnamenti del thriller psicologico classico, cioè di quel genere di film dove fino all’ultima sequenza siamo indotti a credere che A (ad esempio Baby Jane) sia il carnefice e B (ad esempio Blanche) sia la vittima, salvo poi scoprire che i ruoli andrebbero invertiti.
Terminata una lunga relazione infelice e stanco di stare solo, Manuel rimorchia Julio in una chat e se lo porta a casa. Giovani e belli entrambi, segnati dai loro incontri precedenti, desiderosi di trovare “quello giusto” e di smettere di correre la cavallina (ma si dirà ancora?), i due sembrano formare una coppia a tal punto ideale che dopo qualche minuto di chiacchiere e di confessioni reciproche, di carezzine e di bacetti, di promesse e di giuramenti di sincerità e fedeltà eterne, si ritrovano fidanzati. Se fosse tutto qui si tratterebbe ovviamente di un film di rara idiozia, girato con un occhio un po’ approssimativo e con due interpreti non sempre convincenti per raccontare un colpo di fulmine demenziale. Invece le tensioni sotterranee iniziano a essere percepibili da subito: dietro l’insistenza di Julio per la trasparenza, l’abbandono e la fiducia traluce un’instabilità che sembra destinata a fare il paio con il fatto che è spiantato e disoccupato; dal canto suo, Manuel racconta a lungo della sua precedente relazione ma non sembra dire tutto né appare pienamente convinto dalle buone intenzioni di Julio. Non è che l’inizio: lungo tutto il film, ogni volta che le tensioni sembrano appianarsi rinascono subito reduplicate, alternando continuamente Manuel e Julio nei ruoli del candido e del millantatore, della pasionaria ingenua e del profittatore meschino, persino del criminale e della vittima.
L’esordiente Stamm controlla discretamente la macchina da presa ma la sua sceneggiatura non è sempre capace di evitare le secche del teatro filmato, senza contare che i protagonisti lasciano trasparire le loro debolezze nei momenti di maggior tensione. I rivolgimenti sono tuttavia tanti e tali che bene o male il meccanismo disorienta al punto giusto e alla fine la sorpresa di scoprire chi è veramente colui che dice di essere e chi no va a segno, perché ormai tutte le possibilità erano aperte e il risultato sarebbe stato comunque spiazzante (il ripassino finale però poteva esserci risparmiato). La crudeltà delle ultime sequenze porta al culmine quell’insieme di estreme dolcezze e di invereconde prevaricazioni, di concessioni e di pretese, di aperture e di irrigidimenti, che riassumono in una sola notte l’essenza (un po’ fassbinderiana) di ogni relazione. Per questo una volta tanto non sembra gratuito il fatto che per quattro quinti del film i protagonisti se ne stiano nudi: apparentemente inermi e senza veli, apparentemente docili e disponibili a darsi interamente all’altro. Apparentemente.