Se non fosse perché in realtà spesso e volentieri trovo godibili parecchi romanzi scritti ai nostri giorni, o anche freschi di stampa, penserei che, cominciando a procedere verso la mezza età, stia sopravvenendo in me la sindrome del vecchio incontentabile avvezzo, anche in letteratura, ad ergersi a laudator temporis acti se puero sdegnando invece il presente come barbaro o scipito. Magari, al contrario, la sindrome è appena all'inizio: mi spiace, in tal caso fra qualche anno sarò una specie di Harold Bloom in sedicesimo; ne chiedo venia sin d'ora ai miei ventiquattro lettori. Però è un dato di fatto che questo romanzo di Francesco Mastinu mi ha lasciato appagato solo a metà; e non per i motivi che qualche perplessità hanno destato anche nei suoi estimatori. Ad esempio, il fatto che vi sia rappresentata una vicenda prevedibile e paradigmatica, e il fatto che la storia e i personaggi sembrino creati per illustrare una tesi: la mancanza di diritti legalmente sanciti a beneficio delle coppie omosessuali è una questione giuridica rilevante nell'Italia odierna, benché molta gente che vi dovrebbe provvedere creda di no; e la narrazione d'un amore che sboccia, cresce e sfocia nell'idillio d'una famigliola felice con micio non mi pare affatto una caduta di gusto: anzi, l'autore va lodato per il coraggio che manifesta nel raccontare una realtà sana e positiva. Soltanto la malattia e la morte possono spezzare quest'unione calda e serena, rallegrata da una tribù solidale di amici che rendono lieto il vivere nonostante la perdita dei rapporti con le famiglie d'origine dei due protagonisti; e anche nella tragedia va dato atto a Mastinu d'aver cercato una raffigurazione dell'uomo rimasto privo del compagno cupa ma il più possibile asciutta. Ciò che del libro non mi ha convinto è la scrittura. In primo luogo lo stile fortemente paratattico prediletto dall'autore è poco nelle mie corde: preferisco la prosa più costruita e distesa, ma questo, in fondo, lo si potrebbe ritenere un mio problema personale. A prescindere dall'orditura delle frasi, però, ho la continua impressione che sovente la qualità della scrittura non sia all'altezza degl'intenti: le idee ci sono, sono buone, sono ben organizzate, ma sono espresse in modo debole. Prendiamo ad esempio l'omofobia dei genitori: a me le loro frasi suonano fasulle e sforzate anche se non dicono nulla di straordinario; sembra che parlino per proclami: un politico davanti al microfono si pronunzia così, non un padre e una madre dopo il coming out del loro unico figlio. Una certa artificiosità nei dialoghi l'ho notata in ogni caso anche altrove: dato che lo stile del romanzo è piano e realistico, il retrogusto da sceneggiatura televisiva che lasciano parecchi dialoghi disturba parecchio. La cosa funzionerebbe in un contesto straniato o parodistico, ma in un romanzo come questo no. Un po’ di consapevolezza e di cura stilistica in più non avrebbe fatto che giovare.