Il sesso nella preistoria, o di certe cose che di solito non si dicono sull'anello mancante

1 agosto 2013

C’è un solo punto delle conferenze La lezione dei maestri (Garzanti) che proprio non mi va giù, ed è quando Steiner scrive che «in ambito scientifico il bluff, per non parlare della falsificazione per motivi di razza, sessualità, o ideologia, è, per quanto sia umanamente possibile, escluso». Posso capire l’ostilità verso certa correttezza politica, che Steiner sfoga nelle pagine precedenti, e persino condividerla nella misura in cui se ne considerano gli eccessi, i dogmatismi e certe aggressività indiscriminate, ma sono appunto gli eccessi, i dogmatismi e le aggressività il problema, non la correttezza politica, il femminismo o gli studi culturali in quanto tali. Quando questi atteggiamenti sono discesi da altre ideologie, scuole e metodi, non sono stati meno problematici.

Dal momento che Steiner fa anche il nome di Darwin, mi sono ricordato di questo passo leggendo lo studio che Taylor ha dedicato alla storia della sessualità in quei quattro milioni di anni circa che hanno visto l’emergere dell’uomo, a partire da uno dei molti ceppi evolutivi che gli studiosi stanno ancora cercando di ricostruire. The Prehistory of Sex colpisce infatti per la sua esibita correttezza politica, che permette all’autore di mettere in luce errori, inesattezze e soprattutto approssimazioni che si sono accumulate nella breve storia del suo campo di ricerca (poco più d’un secolo) a causa di quei pregiudizi relativi proprio alla sessualità che secondo Steiner lascerebbero immuni gli scienziati, mettendoli al riparo dalle rappresaglie di ideologi e culturologi, i quali invece infesterebbero le discipline umanistiche. La divisione tra maschile e femminile così come la conosciamo oggi, e l’eterosessualità come dominante culturale, hanno invece condizionato la ricerca e Taylor lo mette bene in luce.

Di conseguenza, spesso e volentieri, nel riconsiderare ossa, cadaveri, manufatti, sculture, pitture, tombe e abitazioni dissepolte negli anni, l’autore pone in luce come gli archeologi abbiano catalogato con leggerezza quali maschili o femminili ossa che a un esame più attento potrebbero risultare invece del genere opposto (pare sia il caso anche della famosa Lucy), quando non di un possibile ermafrodito (per cui Taylor sembra avere un debole). Allo stesso modo l’autore – eterosessuale praticante, non sospettabile dunque di agire per semplice revisionismo militante – si interroga sovente sulla possibilità che alcuni reperti, ad esempio certe forme di inumazione e certe raffigurazioni (spesso dalle funzioni misteriose), rappresentino o alludano a rapporti tra persone del medesimo sesso.

Complessivamente, il percorso offerto dal libro è di grande fascino, a partire da un assunto che era in realtà già di Darwin, e cioè che la selezione naturale e la lotta per la sopravvivenza non spiegano tutto: occorre anche postulare una selezione sessuale, poiché alcune caratteristiche evolutive appaiono come svantaggi nei termini di adattamento all’habitat e possono essere giustificate solo con un vantaggio di natura erotica. Sarebbe il caso, secondo Taylor, anche della bipedia, della perdita di pelo e dell’aumento di dimensioni di pene e mammelle rispetto ai nostri antenati scimmieschi, e le tre questioni sarebbero tutte connesse.

Al di là dell’approccio pienamente condivisibile, che è interessante vedere applicato a un ambito simile, il volume presenta alcuni problemi. Premetto che ignoro tutto della materia, in cui mi sono addentrato da mero turista, ma certi principi della ricerca sono comuni che si studi una pellicola o che si studi un osso preistorico.

Problema 1: la confusione. Non nell’esposizione, che è anzi spesso cattivante, ma nel percorso. E non c’è moda divulgativa che tenga: la piacevolezza della scrittura non è un obbligo, ma la precisione della ricerca e il rigore sì. Le troppe parentesi non essenziali (la discussione delle teorie del gene gay mi sembra una di queste) moltiplicano i rivoli paralleli anziché puntare a una tesi precisa, sicché mano a mano che si procede nella lettura la dispersione aumenta e il libro appare infine un po’ inconcludente.

Problema 2: la tendenza a servirsi spesso di informazioni ricavate dalla zoologia, dalla biologia o da altre discipline affini, dandole per scontate, senza documentazione e riferimenti. Si potrebbe sorvolare se si trattasse di informazioni collaterali, ma al contrario si tratta di dati di cui Taylor si serve per dare sostanza alle sue teorie, perché li applica retrospettivamente al periodo storico che gli interessa, sostenendo che sia plausibile ritenere che le cose funzionassero allo stesso modo già allora.

Problema 3: la disinvoltura nell’accumulare una gran quantità di tesi del tutto congetturali, la stessa con cui ho l’impressione che spesso si cerchi di screditare le teorie altrui (ma questo potrebbe confermarlo solo uno specialista). Vero è che i reperti sono spesso insufficienti per offrire certezze, ma vi è modo e modo di costruire le teorie, e in mancanza di ragionevoli sicurezze correttezza vuole che si offrano alternative e si argomentino le proprie posizioni per renderle preferibili alle altre, invece di costruire una macroipotesi accumulando microipotesi puramente speculative, contentandosi della loro semplice esposizione. Soprattutto se a scrivere (come è questo il caso) è un giovane studioso che non ha ancora acquisito un’auctoritas sul campo.

Problema 4: disturbo da deficit d’attenzione e iperattività. Salvo poche eccezioni, anziché andare a fondo sulle questioni inventariando non dico tutto, ma almeno una parte consistente della documentazione disponibile, Taylor preferisce citare solo un esiguo numero di esempi su ciascuno dei quali elaborare rapidamente una teoria. Spesso fa notare onestamente che di mera ipotesi si tratta, ma non per questo il risultato è meno spaesante, anche perché ci si ritrova nel giro di pochi capitoli con un numero di ipotesi esorbitante, meramente accatastate una dietro l’altra. Capisco la necessità di raggiungere un pubblico non solo di specialisti, ma il rischio è di sconfinare dal trattato nel romanzo storico.

Fino a quando Taylor mette in luce dubbi e possibili alternative alle letture correnti il gioco funziona, anche perché alle volte basta davvero poco. Ad esempio, discutendo alcune immagini rupestri ritrovate in Mongolia che potrebbero rappresentare atti omosessuali, riconosce con prudenza che potrebbero avere significati diversi, simbolici o rituali, come spesso si dice. Contro la tendenza ad astrarre tutto ciò che è carnale propria di molti suoi colleghi, Taylor nota tuttavia che «what can be drawn can be done», segnando un punto perché rimette in gioco un’eventualità rispetto ad altre, con un buon senso che non stona solo perché applicato a qualche migliaia di anni fa. Nulla di più opportuno insomma del richiamare l’attenzione su una lettura parallela, nonché sulle possibili ragioni pregiudiziali che potrebbero essere alla base della liquidazione di quella che è poi, a ben vedere, una lectio facilior, in nome della sopravvalutazione della cultura sulla natura che è propria della nostra cultura.

Il gioco funziona meno con le tesi di maggior portata, nella cui elaborazione i problemi sopra indicati si accumulano. Faccio di nuovo un solo esempio fra quelli che possono interessarci. In un paragrafo Taylor ipotizza che l’omofobia sia nata nel Neolitico. Tesi affascinante, ovviamente, le cui implicazioni non sfuggono a nessuno. Il titolo stesso (“The Roots of Homophobia”) promette di dischiudere nuovi orizzonti speculativi. Ma la teoria è semplicemente che i primi insediamenti con allevamenti di animali domestici potrebbero (problema 3) aver messo i nostri antenati di fronte ad animali ermafroditi – il cui tasso pare sia accresciuto dalla cattività (problema 2) – o dediti ad atti omosessuali. Nell’uno come nell’altro caso, in quanto non riproduttivi, questi animali potrebbero (problema 3) essere stati oggetto di ostracismo o magari di tabù alimentari, sicché lo stesso potrebbe (problema 3) essere accaduto con gli umani, su cui i tabù sarebbero stati trasferiti. La grande teoria sull’origine dell’omofobia si esaurisce così, in mezza pagina (problema 4). La mia impressione è che tre «it might» di seguito fanno un grosso «it might not». Inoltre, potrei anche capire la messa a morte di un animale ermafrodita incapace di generare (che tuttavia potrebbe anche essere stato oggetto, viceversa, di fascinazione o di culto, per quel che ne sappiamo), ma un atto omosessuale tra animali non istituisce un comportamento e non impedisce agli stessi di generare con un accoppiamento eterosessuale, quindi che questo comporti la nascita di un tabù o di una forma di rifiuto violento mi sembra tutt’altro che convincente. Insomma Taylor parte da un’ipotesi plausibile, ma plausibile quanto quella opposta, e ne deriva una facile catena di conseguenze, tutte ipotetiche, associando cose in realtà molto diverse fra loro (ermafroditismo congenito/episodico atto omosessuale; animali/umani). Risultato: dopo aver letto queste cinque righe non ne ho ricavato nulla e non posso mettere nel mio repertorio l’idea che l’omofobia sia nata nel Neolitico. Per quel che mi riguarda, potrebbe essere nata prima, dopo, o proprio nel Neolitico ma magari per altri motivi.

Il libro di Taylor è insomma una messe di suggestioni, talvolta utilmente provocatorio, talora un po’ disperante, condivisibile nei suoi assunti di metodo, meno nelle prassi. Certo il campo è affascinante, e non si può che attendere dissodamenti più rigorosi e convincenti.

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