La parte migliore degli uomini

11 agosto 2013

A me gli anni Ottanta hanno lasciato un buon ricordo: sono gli anni del liceo e dell'inizio dell'università, e io li rammento ricchi, leggeri e pieni di luce; sì, andavano di moda cravatte orribili, e neanche il taglio delle giacche e certe pettinature troppo vaporose mi convincono del tutto: però, al contrario di oggi, c'era tanta allegria, ci si divertiva con poco e non si aveva paura del futuro. A dir la verità, non faceva paura nemmeno il presente: il che li distingueva dal decennio che li aveva preceduti.
Adesso che il presente fa schifo, il passato recente ha l'aria d'una discarica e il futuro prossimo possiede tutte le apparenze dell'incubo, quegli anni dovrebbero brillare come un angolo di paradiso. Invece no. Oggi parlare male degli anni Ottanta va di moda, soprattutto in Italia e soprattutto, ça va sans dire, fra i chierichetti dell'impegno che un tempo sarebbero finiti a fare gli eretici di mestiere in qualche setta di adamiti, dolciniani o anabattisti, l'altro ieri di sarebbero impiegati come provetti dinamitardi, e oggi, epoca meno turbolenta, si accontentano di cicalare, brumosi e pensosi, nei salotti e nelle redazioni brumose e pensose.
Però, va detto, tutto il mondo è paese, come sembra suggerire questo romanzo del francese Tristan Garcia, dal quale gli anni Ottanta e Novanta escono con le ossa rotte: anzi, Ottanta, Novanta e perfino d'inizio millennio, ché la Francia non ha subito le cesure press'a poco decennali cadute da noi: sfogato l'istinto rivoluzionario con relative carneficine già temporibus illis, il suo Sessantotto fu molto chiacchierone ma povero di derive a mano armata, sicché venne a morire assai dolcemente, per stanchezza, come le mode sfiorite; e l'onda fatua e vanesia che gli tenne dietro poté non rinnegarlo del tutto, ché del resto la jouissance sans entrave è un motto proprio del Maggio parigino (tra parentesi: ma quanto fanno la figura dei cugini poveri e dei fratelli scemi i sessantottini nostrani rispetto a quelli là!), e l'eco della risacca, via via più fievole, è dileguato or non è guari. Ma insomma, fatta la tara alle differenze, Garcia ce l'ha con quegli anni e con quel mondo là.
Essendo nato nel 1981, peraltro, non l'ha conosciuto direttamente se non, forse, nelle estreme propaggini temporali: ed, essendo però uno scrittore più intelligente di quelli di casa nostra, i quali si sarebbero tuffati nell'autobiografia a scorno del ridicolo, si cala nell'atmosfera dell'epoca con un espediente tale da consentirgli una certa presa di distanza: le vicende dei tre personaggi, tutti maschi, assunti quasi ad emblema di quell'era, sono raccontate da una donna loro amica (e di uno dei tre, l’unico etero, anche a lungo amante), esempio un po’ penoso di mezza fag hag saprofita di esperienze altrui, osservatrice a tratti compartecipe, a tratti sconcertata, e spesso anche, va detto, alquanto imbecille. Scrivere in prima persona d'un decennio trascorso da poco, che invece molti lettori conoscono per esperienza diretta, sarebbe stato infatti troppo rischioso: grazie al filtro cui ricorre Garcia, l'impianto della storia viene, sotto questo aspetto, a riacquistare verosimiglianza.
Il problema del libro è un altro: i personaggi emblematici risultano molto scialbi. Ciascuno di loro incarna un tipo diverso d'intellettuale. Jean-Michel Leibowitz, figlio d'un operaio di origine polacca sopravvissuto ad Auschwitz, è partito, al pari di tutti, dalla classica gauche entusiasta di Mao e di Foucault per passare a un disincanto di destra velato di cinismo e di persuasione, però, di continuar a combattere le battaglie di prima e di trovarsi sempre dalla parte giusta: di codesti saltatori di fossi noi italiani sappiamo morte e miracoli, visto che qua sono legione; ma Leibowitz è un po’ più simpatico dei comunisti riciclati di casa nostra. Poi c'è Dominique Rossi, variamente detto dagli amici Doum, Doumé e vari altri vezzeggiativi, gay còrso, figlio d'un medico indipendentista, che s'è lasciato alle spalle al tradizione rivoluzionaria di famiglia per abbracciare una rivoluzione di respiro infinitamente più ampio sinché, scemando questa, ha rivolto il suo talento battagliero a lottare contro l'AIDS che si è portato via tutti i suoi amici. E infine c'è William Miller, figlio d'un piccolo commerciante ebreo di provincia, ragazzo bellino, debole e un po' folle, che, dopo essere stato il compagno di Dominique, ne diviene l'implacabile avversario col sostenere l'assoluta necessità del sesso libero. Nessuno dei tre risplende per peculiari doti di simpatia: è possibile anzi che col dipingerli poco attraenti e poco significativi - e d'altronde la narratrice stessa è una donna scipita, e brilla della scarsa luce riflessa dal suo amante Leibowitz e dagli altri due amici - Garcia ne abbia inteso tratteggiare un ritratto realistico: spesso gli uomini in carne ed ossa sono pieni di debolezze e molto di ciò che fanno è privo d'interesse. Il guaio è però che raccontare una storia non significa mettere in fila un po' di accadimenti più o meno degni di nota: perlomeno dai tempi di Aristotele è divenuto chiaro che sull'autore gravano anche doveri di selezione, concentrazione e concatenazione del materiale; ciò che può essere prezioso in un saggio, come il rendere dettagliato conto di minute vicende, facilmente ammazza un'opera narrativa. Si può dire almeno che con l'accumulo di piccoli fatti privati Garcia voleva gettare lampi intermittenti a illuminare dettagli d'un'epoca così rievocandone i contorni? Sì e no: perché, trattandosi di fatti poco appariscenti e di personaggi poco simpatici, tutto resta nebbioso e vagamente insipido. Certo, va tenuto anche conto che parecchi riferimenti politici e culturali dicono poco al lettore italiano (il quale magari una certa familiarità con Bourdieu o Derrida ce l’ha, ma sicuramente con Rocard o Giscard ne ha assai meno), mentre per quello d'oltralpe riescono eloquenti ed evocativi; nondimeno una buona dose di freddezza rimane.
Con essa fa a cozzi, ma solo prima facie, il tono grottesco a volte usato specialmente quando entra in iscena William: il grottesco non contrasta davvero con la freddezza e il distacco, perché serve a speziare e a dare un po' di vita a pagine smorte; al contempo, però, nel lettore suscita una sensazione di spiacevole disagio estetico: i personaggi sono slavati perché devono sembrare veri, ma poi più che veri appaiono esagerati, monomaniaci e artificiosi.
A questo punto, temo che Garcia del periodo che rappresenta non abbia voluto dare un quadro realistico, bensì una caricatura sotto mentite spoglie, e neanche sempre mentite. Mentre insomma Didimo Chierico le sue controversie con l'Ariosto le ventilava fra sé, lo scrittore (e filosofo) francese le sue questioni con gli anni Ottanta e Novanta e Duemila le mette in piazza, e ne fa un romanzo: da Gallimard, quando arrivò il manoscritto, rimasero sorpresi ed entusiasti; si vede che ormai anche in riva alla Senna si pubblica quel che si può, un po' come da noi: e mi si permetta di rimanere assai meno entusiasta di Gallimard. A onore del libro, devo dire però che, nonostante il poco sapore, è scritto con la tipica prosa limpida e scorrevole ch'è uno dei pregi caratteristici dei francesi: si legge, se non con trasporto, almeno senza fatica e perfino senza annoiarsi. Visto il tipo di premesse, non mi sembra una qualità da poco.
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